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Мабуть Естер

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Книга Каті Петровської "Мабуть Естер" піднімає й досі замовчувану в нашій літературі проблему Голокосту,що був учинений німецьким нацизмом на українських теренах, зокрема в одному з київських урочищ, сумно відомому як Бабин Яр. У ньому були розстріляні не тільки євреї Києва та прилеглих до нього територій, але й чимало українських патріотів, серед них і відома поетеса Олена Теліга. Про це свого часу були написані талановиті твори російських авторів � етапний вірш Євгенія Євтушенка та роман Анатолія Кузнєцова. І ось у Німеччині з’явилас� книга киянки за походженням Каті Петровської, яка оповідає про ті далекі трагічні події крізь призму подій сімейної хроніки. Книга отримала великий резонанс у світі й вже перекладена на 18 мов. Видавництво «Книги –ХХІ� пропонує український переклад книги. Переклав її відомий український перекладач Юрко Прохасько, післямову написав редактор проекту Петро Рихло.

228 pages, Hardcover

First published January 1, 2014

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About the author

Katja Petrowskaja

12books72followers
Katja Petrowskaja was born in Kyiv in 1970, to a Russian-speaking family. She studied literature in Tartu, Estonia and then completed her PhD in Moscow. She has lived in Berlin since 1999. She won the Ingeborg Bachmann Prize in 2013 and wrote her bestselling first book Maybe Esther, in German. It was published in 2014 and was awarded the Premio Strega Europeo Prize, the Aalen Town Schubart Literary Prize, the Ernst Toller Prize and the Aspekte Literature Prize. It was a Spiegel bestseller and has been translated into nineteen languages

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Profile Image for Orsodimondo.
2,376 reviews2,331 followers
July 7, 2022
UNA NESSUNA E CENTOMILA


Immagine di copertina.

In parte romanzo, in parte memoir, e reportage, e certo, autofiction, corredato di fotografie in bianco e nero, perso tra i mulini a vento del ricordo, in particolare in quello del popolo ebreo, un collage di fatti storici e vicende autobiografiche, documenti d’archivio e ricordi personali�: come non pensare subito a W.G. Sebald?

E infatti la bandella è pronta a ricordarcelo, a tracciare il parallelo.
E presumo che Katja Petrowskaja sia lusingata e oltremodo felice del raffronto.
Il suo libro è un esordio bello, e prezioso � Sebald ha scritto almeno un paio di capolavori e diverse magnifiche preziose opere prima della sua morte prematura: l’humus è simile, il terreno comune, la mano molto diversa.

description
Foto di famiglia per avviare la memoria.

La Storia comincia quando non ci sono più persone alle quali poter domandare, ma solo fonti.

Genealogia di una famiglia sovietica attraverso vari paesi (Polonia, Ucraina, Russia, Austria, Germania) e soprattutto attraverso un’esplorazione linguistica (yiddish, russo, polacco, ucraino, ebraico, la lingua dei segni, perché la famiglia della Petrowskaja ha fondato un po� ovunque scuole per sordomuti, l’inglese, che non è di nessuno ma di tutti), un incrocio polifonico di parole simili ma diverse, le parole che per il popolo ebreo sono fondamento e identità (per gli ebrei la parola è tutto dice Petrowskaja, e penso anche al libro di Oz “Gli ebrei e le parole�).

description
Kreschatik di Kiev, la strada più importante della città, dopo la liberazione, novembre 1943.

Alla ricerca delle sue origini, Petrowskaja contatta persone via Facebook, fa indagini in archivio e su Google, viaggia, studia fotografie, mette a fuoco i suoi ricordi, visita luoghi, legge libri, miti greci, leggende popolari, e fiabe, la sua analisi si avvale di strumenti e canali diversi, come gli idiomi in cui è nutrita.

Tutto si muove tranne il tempo.

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La stazione ferroviaria Hauptbahnhof di Berlino.

Il percorso storico di questa narrazione non può che attraversare i momenti più spettrali del Novecento, e, comprensibilmente, dal punto di vista della vittima, la stella gialla vale la stella rossa, gulag e lager sono uguali, Hitler e Stalin fratelli, i totalitarismi si sovrappongono.
Tuttavia, Petrowskaja non dimentica l’ironia, la sparge con intelligenza e regala alla sua opera una marcia in più.

PS
Nel titolo cito Anna Foa che a questo libro ha dedicato un bel commento sull’Osservatore Romano.


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Profile Image for piperitapitta.
1,029 reviews430 followers
January 20, 2019
Passavamo sulla terra leggeri.



Sono sempre più restia ad attribuire stelline a libri di memorie, memorie in genere, ancor più se trattano il tema della Shoah.
Pudore, rispetto, timore, delicatezza, inadeguatezza, forse di tutto un po'.
Anche questo di Katja Petrowskaja non fa eccezione, perché sin dalle primissime pagine ci si accorge di essere entrati in un territorio privato, minato e vacillante, uno di quei territori che incrociano le sorti dannate dei milioni di ebrei dell'Europa orientale (sterminati durante il nazismo, anche se, a guardare da vicino nella lente, lo sterminio è iniziato molto prima e le vicende dei pogrom e dei gulag di matrice russa e sovietica, si intrecciano pericolosamente, specchiandosi, a quelle dei lager tedeschi), a quelle della famiglia dell'autrice.
Ma Katja Petrowskaja ha anche velleità, ambizioni, aspirazioni da scrittrice (non so perché questi tre sostantivi, uno dietro l'altro, ma anche se isolati l'uno dall'altro, danno subito una connotazione negativa a quello che cerco di esprimere, mentre no, non è così).
Katja Petrowskaja, dicevo, si capisce sin dalle prime pagine che è una scrittrice vera, dalla scelta delle parole, dal corso di certe frasi che sembrano aggrovigliarsi come i pensieri per poi, quasi imprevedibilmente, districarsi e lasciare chi legge come stordito dalla bellezza e da tanto ardire, dalle pause, dal respiro dato alla sua ricerca e dal suo viaggio interiore, che sembra percorrere le stesse miglia e le stesse distanze percorse da quello geografico.
Parole, dicevo.
Parole che hanno un suono e un peso specifico, quasi a contrastare, nella memoria dell'autrice, le sorti di una famiglia che affonda le sue radici nell'insegnamento ai bambini sordomuti: da Vienna a Varsavia, da Varsavia a Kiev.
Parole che non hanno solo una lingua, ma tante: il linguaggio dei segni, l'yiddish, il polacco, il russo, l'ucraino, il tedesco.
Il tedesco, la lingua in cui scrive Katja Petrowskaja, la lingua del nemico, quasi un paradosso, eppure.
Eppure è la sua lingua di adozione, eppure è la "lingua padre", quella scelta, contrariamente alla "lingua madre", saltata fuori, quasi come uno scherzo del destino e da quel meltin' pot familiare, vertiginoso, che mischia affatto casualmente, ma forse confusamente, lingue e idiomi, religioni, nomi e cognomi, abitudini e genealogia.
Quel meltin' pot che, come i vecchi straccivendoli e cenciaioli ebrei riuscivano a districare traendone ricchezza per generazioni, Katja Petrowskaja cerca di addomesticare nella sua ricerca morale e familiare delle radici della sua famiglia multiforme.
Si susseguono nel corso della sua ricerca, nomi di persone che mutano con il mutare dei confini, di cognomi che mutano con il mutare delle egemonie, di luoghi che mutano geograficamente e nell'uso comune con il mutare dei secoli.
È così oggi Babij Jar, luogo di massacro impunito di migliaia di ebrei ucraini, fossa comune occultata alla memoria, e luogo dove forse Esther non riesce a giungere per essere massacrata insieme agli altri ebrei perché viene uccisa prima, banalmente, senza un vero perché, abbattuta e schiacciata come una mosca, lungo una strada anonima, da un drappello di nazisti annoiato e infastidito dalla sua presenza, ma è anche il luogo dove oggi, centinaia di persone, esseri umani, passeggiano forse ignare, transitano in bicicletta forse distratte, godono del sole tiepido della primavera forse grate per il fatto che qui il ricordo della morte sia ben celato al mondo e ai suoi abitanti.
Libro ostico, di non facile presa, che muta pagina dopo pagina come mutò, forse, davanti ai suoi occhi, la storia che Katja Petrowskaja aveva tenacemente inseguito e che forse, ai suoi occhi (ma anche ai nostri), si dipana così tragicamente, e senza un vero perché, da non riuscire ad arginarne l'impatto.

«[...] Non mi ero mai sentita così irrimediabilmente perduta come lì a Varsavia. Pensavo in russo, cercavo i miei parenti ebrei e scrivevo in tedesco. Avevo la fortuna di potermi muovere nella fenditura dei linguaggi, nello scambio, nell'alternanza dei ruoli e delle prospettive. Chi ha conquistato chi, chi appartiene ai miei e chi agli altri, quale sponda è la mia?»

«Nei miei appunti c'è scritto quarantasettemila «cremati», una parola curiosa in mezzo alle cifre, la maggioranza morì di denutrizione e malattia, magari è sbagliato, voglio dire è sbagliato il numero, come se numeri del genere potessero mai essere giusti, circa centomila uomini sono stati uccisi a Mauthausen oppure sono stati annientati dal lavoro. Se un essere umano fosse tanto più grande di un atomo quanto il sole è più grande di lui, che cosa starebbe a metà strada fra la morte del singolo e la morte di milioni? Uno lo capisco, dieci anche, cento a fatica, ma mille?»
Profile Image for Paula Mota.
1,441 reviews481 followers
November 9, 2021
Quando, há 20 anos, a Ucrânia se tornou independente, com o tempo todos os grupos de vítimas foram tendo o seu monumento: uma cruz de madeira pelos nacionalistas ucranianos, um memorial pelos operários do Leste, um por dois membros da resistência espiritual, uma placa pelos ciganos. Dez monumentos, mas nenhuma comemoração coletiva, pelo que, na memória, a seleção continua.

A quem interessam os nossos antepassados? A nós, à nossa família e, com sorte, a um ou outro amigo curioso e atencioso. Ainda assim, há programas de enorme sucesso, como “Who Do You Think You Are?� que, devido ao trabalho de pesquisa e a uma árvore genealógica surpreendente, se tornam extremamente apelativos. Este livro de Katja Petrowskaja também é assim nesses aspectos, porque a investigação que fez para escrever este livro é digna de um detective e quanto mais a aprofunda mais nos espanta com as desventuras e as tragédias dos seus avôs, tios-avôs e bisavôs. O problema é que a autora deita tudo isso para o papel de forma atabalhoada, com demasiados apartes, com frases pouco claras, e para essa confusão estou convicta de que a tradução também contribui.
Neste regresso ao passado, “Talvez Esther� faz-me lembrar o labiríntico “Uma História de Amor e de Trevas�, de Amos Oz, porque ao recuar várias gerações, a árvore genealógica não só se estende como se ramifica uma e outra vez, até onde houver registos. Ou seja, estamos a seguir as pegadas de duas avós e de dois avôs e, de repente, já temos tios-avôs e tias-avós, bisavós e bisavôs e parentes cada vez mais distantes, numa profusão de nomes difíceis de acompanhar, quanto mais não fosse pela quantidade de diminutivos que cada um tem e que é usado aleatoriamente.

Quando eu era pequena, a minha avó Margarita, mãe do meu pai, a quem chamávamos Rita embora originariamente se chamasse Rebekka, também Riva por diminutivo, punha-se na varanda do 7º andar em Kiev a olhar para longe, por cima das árvores.

Infelizmente, este problema de nomenclatura também afectou a tradutora, que às tantas, escreve: “A minha bisavó Rita estava grávida e, com o medo, entrou prematuramente em trabalho de parto. Embora o meu pai devesse ao tio Judas o seu nascimento prematuro, durante muito tempo mal soube da existência desse tio.� Mas Rita/Rebekka/Riva/Margarita não era a avó da narradora, portanto, mãe do pai de Katja e não sua avó? Confusos? Eu também. A partir daqui, confesso que comecei a desconfiar da tradução e da revisão (?), a pensar no que mais não estaria eu a detectar, e o meu desencanto com esta obra aumentou. Mais uma frase cheia de nomes que não faz sentido em português: “O meu avô Vassili Ovdienko, que eu tratava por Deduchka Vasia, chamava a todos os outros Ded Vasia, alcunhas que não se adequavam.� Não, os outros todos é que lhe chamavam Ded (avô) Vasia, logicamente, até para mim, que não sei alemão nem percebo nada de línguas eslavas.
Cinco estrelas iniciais que se transformaram em 4 pela falta de talento da escritora e em 3 pelo que ficou "lost in translation", o que deve ser bastante pela amostra.

Claro que eu sei que tínhamos passado aquele portão, sei o que fica naquele portão, tal como sei quanto é dois e dois, a letra de “Frère Jacques� ou o padre-nosso, só que isso não sei tão bem, mas sei exatamente o que diz por cima da porta e que a partir daí odiei o trabalho, a própria palavra que jamais o dinheiro ou a poesia hão de libertar desta maldição, e não consigo assentar num trabalho porque estou sempre a perguntar aonde me leva esse trabalho porque se conjuga com o que ali se diz da liberdade e afinal ali não está a solução.
Profile Image for Cosimo.
443 reviews
March 25, 2016
Vorrei tornare a casa

“Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato,/il riflesso del vostro volto, i vani palpiti di vane ali.../fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi�. A. Achmatova

Il romanzo Forse Esther di Katja Petrowskaja è un'opera autentica e struggente e intensa sulla shoah e sull'essere umano, una genealogia affettiva e storica che cerca di elaborare una passione, un rituale e restituire al lettore il senso di una pulsazione, di una permanenza, dove sfidare il tempo della morte in una riunione familiare in cui volti, voci, gesti e racconti escono nudi dall'oscurità, mentre si prova a entrare nell'alterità colpevole, attraverso una ricerca amorosa per il prossimo, e liberarsi dal discorso della vittima, in una narrazione non lineare, dialogica, deviante, digressiva e riflessiva, che segue l'impulso a cercare ciò che è scomparso, il destino singolo nel passato storico, spirituale e esistenziale. Pietro Citati ha accomunato l'opera dell'autrice ucraina, che ha ricevuto il premio Strega Europeo e il premio Ingeborg Bachmann, a Austerlitz di Sebald e ai Quaderni di Simone Weil e la sua riflessione si sofferma su questo dettaglio: “Il racconto della Petrowskaja si estende e si allarga e raggiunge i tempi della madre: i tempi della persecuzione sovietica e nazista. Prima i processi del 1936-38. Poi i massacri del 1941 a Babij Jar a fine settembre quando Kiev, la più antica città russa, dove da un millennio vivevano ebrei, diventò all'improvviso Judenfrei - ripulita dagli ebrei. Trentatremilasettecentosettantuno persone furono uccise in solo due giorni�. E tra le cento e duecentomila persone in due anni: prigionieri, partigiani, donne, zingari, dissidenti, malati e diversi, innocenti nel tempo sospeso di guerra e distruzione. Katja Petrowskaja è nata a Kiev, ha svolto studi umanistici a Tartu, si è laureata in lettere a Mosca, dal 1999 vive a Berlino e ha scritto in tedesco. Tedesco che per lei è la lingua che non sa ascoltare, lingua muta, lingua del nemico: lavorando con la sua alterità ha deciso di scrivere questo testo straordinario e meraviglioso per dare voce a domande che non trovano risposta, per formare concretamente il ritmo della storia universale, di una memoria nomade che si esprime tra danza e canto: “chi ci sussurra storie che non hanno testimoni?�, e poi “ma come si poteva credere a simili voci?�. L'autrice appartiene a una famiglia multietnica e plurale nel linguaggio culturale: insegnanti e logopedisti, un contadino, un fisico, un agitatore, un eroe di guerra, un poeta. Luogo di leggende e eredi di sopravvivenze e altruismo, perché chi aveva dubitato non era sopravvissuto, mentre chi è vivo ha maturato una propensione all'infelicità, “come se soltanto dell'infelicità valesse la pena parlare, mentre la felicità era vuota�, perché “noi dobbiamo la nostra vita a una finzione�. E ancora: ”La sensazione della perdita si affacciava senza preavviso nel mio mondo peraltro sereno, aleggiava su di me, stendeva le sue ali, e io mi sentivo priva di aria e di luce, per una mancanza che forse non esisteva affatto�. E' un viaggio iniziatico nella storia del mistero del mondo ebraico, camminando all'indietro nel cuore dell'Europa novecentesca, di un'umanità perduta nei campi e nella memoria, nelle tracce invisibili di Auschwitz e Mauthausen, e la scrittrice ricostruisce e riannoda, perché il ricordo è l'unica prova dell'esistenza del passato, fallisce nel silenzio della parola, il silenzio che regna quando bastano gli sguardi, la lingua muta degli esclusi, degli orfani salvati a centinaia in scuole e asili, le lingue ferite e minacciate, yiddish, polacco, ucraino, ebraico, russo, tedesco, le città della fuga e della diaspora, Kiev, Mosca, Varsavia, Berlino. Petrowskaja non crede che esistano estranei quando si tratta di vittime, ogni essere umano ha qualcuno nei luoghi del male e del nulla: l'autrice utilizza una scrittura frammentaria, analogica e introspettiva, mettendo così in scena, con ironia attualizzante, una rielaborazione empatica e un'autobiografia collettiva, in un dettato corale e drammaturgico, che ha qualcosa di remoto, di un'identità in cambiamento e in estensione, contraria al sentimento dell'odio. Petrowskaja muove verso l'incertezza, temendo di non poter imparare nulla, e incontrando se stessa su una sponda morale creata nel narrare e nella parola, che è vincolo e punto debole, opposizione e tormento: � Forse si scrivono così i romanzi. Oppure anche le fiabe. Siedo in alto, e vedo tutto! A volte mi faccio coraggio e mi avvicino e mi metto alle spalle dell’ufficiale, per ascoltare di nascosto la conversazione. Ma perché mi voltano le spalle? Giro loro attorno, e ne vedo solo le spalle. Per quanto mi sforzi di guardarli in volto, di vedere i loro volti, quello di babuška e quello dell’ufficiale, per quanto allunghi il collo per riuscire a vederli e tenda tutti i muscoli della mia memoria, della mia fantasia e della mia intuizione � non funziona proprio. Non vedo i volti, non capisco, e i libri di storia tacciono�. La germanista Anna Chiarloni ci ricorda che tutto accade adesso, come l'inferno dei lager e dei gulag, perché sulla pagina prendono vita i fantasmi ambigui della conoscenza, si anima un atto di resistenza che vuole aprire una dimensione metafisica :“Corpi offesi, a grappolo sulla pagina, tra spazi vuoti in cui si legge il silenzio del lutto. Sfilano cognomi migrati nella diaspora, identità mutate e timbrate dai diversi passaggi di regime e confine nell'Europa tra Otto e Novecento�. Tutto sembra lo sviluppo di una condizione di dolore disperato, di ritorno nostalgico e scontento a un'ideale casa di infanzia, con l'appartenenza a una heimat europea condivisa e sofferta.

“lo so, dovrei avere paura, non vorrei nemmeno guardare, lo so, se ci si lascia invadere da questa paura si diventa di pietra, come alla vista di medusa, della gorgone, questa paura è la stessa medusa, ma io ho una protezione, il mio scudo, il mio nome, il mio nome porta in sé una pietra, pietro, pietro, una pietra, grazie a un nonno, è valsa la pena cambiare nome, non mi pietrificherò, e sono per di più innocente, caterina la pura, l'immacolata, potrei guardare la medusa, ma qualcosa mi trattiene, come se fra stern e me si frapponesse un eroe con tanto di scudo, perseo, che tiene stretto uno scudo su cui vedo rispecchiarsi medusa, non direttamente, ma in rifrazioni di paura, paura in schegge, vedo schegge di paura, mi feriscono, ovunque c'è un prezzo da pagare, un brandello d'anima da cedere, no, all'inizio non vogliono comprare l'anima intera, solo alcune parti, la quota di iscrizione al sindacato, al giovane partito, al proletariato, ingranaggi, siamo tutti ingranaggi di un grande congegno, e se hai dolori fantasma, non piagnucolare, fa' piuttosto una battuta di spirito, e adesso sorridere, prego, solo uno scatto, per così dire, affinché sia più dolce la transizione, ridere ti allunga la vita, presto riposerai anche tu, io non ho paura, perseo mi tiene il suo scudo davanti agli occhi, immagine riflessa dell'orrore, istinto di sopravvivenza�.
Profile Image for Lisa.
1,099 reviews3,299 followers
February 28, 2021
How do you tell the story of your family if the records have been lost, the memories have faded, the story has been buried under the burden of history?

Part detective story, part family archive, this collection of stories from the author's past is a panorama of Jewish fate in its various tragedies.
Profile Image for trovateOrtensia .
235 reviews264 followers
September 28, 2017
Mia nonna e il mondo della materia disorganizzata

In un tiepido autunno genovese del 1944 la mia nonna materna morì, poco più che ventenne, per una setticemia fulminante. Qualche settimana prima era scampata, insieme a sua figlia (e mia futura madre), al crollo di una galleria antiaerea durante il quale morirono centinaia di persone di cui ormai, credo, si è persa memoria. Così come si è persa memoria del luogo in cui avvenne l’incidente. L’ingresso del rifugio è occupato ora da una carrozzeria davanti a cui, nei miei quotidiani percorsi di bambina e di adolescente, sono passata per anni senza sapere che lì dentro mia madre aveva mancato per un soffio il suo incontro con la morte, non per miracolo (ché non ci credo e neanche lei ci credeva) ma per puro caso. La mia giovane nonna mai conosciuta, dicevo, sopravvisse al crollo riportando soltanto qualche graffio alle mani. Ma uno di quei graffi s’infettò e lei morì. In quel momento la Storia incrociò la sua storia individuale, le si parò davanti e lei ci inciampò contro, e dalla storia e dal tempo si ritrovò fuori per sempre. Un effetto collaterale della Seconda Guerra spedì mia nonna “nel mondo della materia disorganizzata�, come dice uno dei protagonisti del libro ai suoi carcerieri (“quando mi spedirete nel regno della materia disorganizzata?�). Ho una bella foto della mia giovane nonna mentre si ripara dal sole con un ombrellino di pizzo (e come, se no?), su quella spiaggia di Cornigliano che una trentina d’anni dopo già non esisterà più, inglobata dal complesso siderurgico dell’Italsider. Non ho foto, invece, del fratello di mio nonno, partito e mai più tornato dalla campagna di Russia. Letteralmente annientato, polverizzato, disintegrato. E di un altro parente materno, falciato da una raffica di mitragliatrice mentre si sporgeva dal suo nascondiglio per accendere una sigaretta al compagno, che gli sopravvisse e raccontò. Sono storie famigliari, tutti ne abbiamo e necessariamente ogni storia famigliare s’incrocia con la Storia. Il recupero e la trasmissione della memoria è importante, ed io sono una di quelle persone che perde tempo negli archivi e nei registri parrocchiali, importunando lontani parenti alla ricerca di informazioni e nomi e vite perduti, creando pericolanti e approssimativi alberi genealogici che non legge neppure mia sorella. Ma questo viaggio alla ricerca delle memorie di famiglia non sempre può trasformarsi in un libro destinato ad una fruizione che vada oltre la dimensione intima: la storia di mia nonna interessa me, voglio dire, e purtroppo io non sono Sebald, né Proust e non sono in grado di renderla non dico interessante, ma significativa anche per altre migliaia di lettori.

Neanche la Petrowskaja è Sebald, contrariamente a quanto annuncia la menzognera quarta di copertina. Ed io mi sono un po� stancata di trovare impropriamente affiancato il nome di Sebald ad opere che ricostruiscono vicende famigliari (qui molto tragiche e legate alla Shoah) corredandole con qualche foto degli album di famiglia.
Nonostante ciò, il libro merita lettura.
Profile Image for Gumble's Yard - Golden Reviewer.
2,084 reviews1,689 followers
December 20, 2018
As a child I thought a family tree was something like a Christmas tree, a tree with decorations from old boxes - some baubles break, fragile as they are, some angels are ugly and sturdy and remain intact through every move.


Katja Petrowskaja was born in Ukraine, to a Russian speaking Jewish-descended but now non-religious and Soviet family, with tradition of teaching deaf-mutes; she has a Polish-born grandmother and a father who read literature in Polish not available in Russia; she studied in Estonia and Russia and lives in Germany. This book was written in German � a language she picked up at the same time as her brother decided to learn Hebrew � neither of them speaking the historical amalgam of Yiddish, the near eradication of which her father explains as “Hitler killed the readers and Stalin the writers� - a language her great-grandmother (the maybe Esther of the book’s title) was shot for speaking to a German officer as she tried to make her way to the Jewish round up in Kiev that would preceded the Babi Yar massacre.

And there is much of the sense of this book � ostensibly a documented research into family history, written in what could be described as a Sebaldesque style (the rather lazy comparison being enhanced by the inclusion of black and white photos of family members), but one which explores the terrible and lasting impact of the Holocaust on Central/Eastern Europe, but one which also explores the extra ambiguities in that impact due to the blurring and mixing of national, super-national, political, linguistic and religious influences. For example, the hopelessly and fatally optimistic view of the Jews in Kiev that the common root of their Yiddish with the language of the invaders meant that they should not fear the Germans, in willful denial of reports that they were already aware of from their fellow Jews in Poland..

The author’s research really started when her mother’s sister � the last of the family to maintain the deaf-mute tradition and witness to many events dies:

History begins when there are no more people to ask � I had no one left to question, no one who could still recall those times. All I had were fragments of memory, note of dubious value, and documents in distant archives �. I was at the mercy of history


The search is also motivated by a family belief in the complexity of her family and its role in the centre of some of the most terrible events of the 20th Century - a great Uncle whose attempted assassination of a German ambassador played a part in increasing the tensions between Russia and Germany, various relatives killed in concentration camps or massacres.

I had thought that telling the story of the few people who happened to be my relatives was all that was needed to conjure up the entire twentieth century ……�. My family had just about everything I had arrogantly thought


Her quest to understand the family history leads her to return to areas where some of the most important family events occurred:

I was travelling to Poland with the same destination and the same train- assuming the urge to search for what has vanished can be defined as a destination at all


Her research makes extensive use of Google � which enables her to trace distant family members, those who witnessed events which occurred to her family and leads her to meet others on similar quests.

if you google yourself, at some point your namesakes vanish, and what remains is only you �. How is democracy supposed to work if you get only what you have searched for and if you ware what you search, and you never feel alone or you always do since you never get the chance to meet the others, who are not like you, and that’s how it is with the search, you come across like minded people. God googles our paths, so that we stay put in our grooves


I sifted through � old papers � on the internet. The search command highlighted the word deaf in yellow, as though Google knew yellow was the colour of Jewsihness


Her task is made harder by the complexities in her family history � people changing their name to disguise their origins or to re-signal their loyalties, and whole branches of the family being effectively taken out from the family history in the interests of self-preservation.

In an earlier time �. having a large family was a curse, because relatives could be members of the White Army, saboteurs, noblemen, kulaks, overeducated “enemies of the people� living abroad, their children, and other dubious characters and everyone was under suspicion, so families suffered a convenient loss of memory, often in order to save themselves, even though it rarely helped, and on special occasion, any relatives who might fit these categories were generally forgotten, often hidden from their children, and families dwindled: whole branches of families were pared down


And by the realisation that not all of the stories passed down in her family are either fully substantiated

Our family’s history is predicated on a questionable translation without a source text, and I am now telling the story of this family in German without there ever having been a Russian original


Or given to neat explanations � a series of revelations which do not fit her mental pictures, including a family ancestor known as Adolf, leads to:

The past betrayed my expectations, slipping out of my grasp and committing one faux pas after another …� [these] confirmed my fear that I had no power over the past, it lives as it pleases, and just does not manage to die


At times its clear that the historical records, the power of Google and the remaining eye-witnesses still leave gaps � at which point the author fills in the gaps with her imagination:

As I was speaking so enthusiastically and offhandedly and saying things I would certainly not define as a lie, my imagination took wing, and I drifted further and further without the slightest fear of going over the cliff


This is a complex book � and not one where the reader can easily follow the different family relationships; at times the author’s research can (at least as written down) to lack order and logic, but nevertheless the book gives a powerful and moving historical insight.

Sometimes I had the feeling that in picking my way through the rubble of history, I was gradually losing the sense not only of my search, but of my entire life. I wanted to bring far too many of the dead back to life and had not thought through a strategy to do so. I read random books; I travelled through random cities and in the process made pointless, even false movements. But maybe � and this is only a bold assumption on my part � I stirred up the ghosts of the past with all this moving around, touching a tender membrane somewhere in the lowest layer of heaven, one that a human being might well reach.
Profile Image for Dolceluna ♡.
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August 27, 2020
Un anno e mezzo fa ho compiuto un viaggio nei paesi baltici, e, soggiornando come prima tappa a Vilnius, ho deciso di fare una visita a Paneriai, forse più noto col nome polacco di Ponary. Si tratta di una località a una decina di chilometri da Vilnius, immersa in una foresta, dove, fra il 1941 e il 1944, furono uccise e sepolte, in fosse comuni, più di 100.000 persone, principalmente ebrei provenienti dalla vicina Vilnius. Da sempre interessata al tema della Shoah, non potevo perdere l’occasione di visitare in prima persona un posto simile, non per uno strano gusto del macabro come si potrebbe temere, ma perché credo che testare dal vivo ciò che si legge e si studia sia uno dei modi migliori per conoscerlo meglio, per capire, per approfondire. E perché, lo ammetto, ero e sono tremendamente curiosa. Volevo vedere cosa avrei trovato e soprattutto cosa avrei provato, al di là di ciò che mi segnalava la guida, convinta chissà, di trovare file di turisti davanti al sito. Ebbene, scendo a Paneriai (faccio ancora fatica a pronunciare il nome lituano) e mi ritrovo in una stradina asfaltata, circondata da un lato da fattorie, e dall’altra da campi verdi. Completamente sola, nel sole di Aprile, nel silenzio di un’unica strada solitaria che partiva dalla stazione e, come indicato dal navigatore, mi invitava ad andare sempre dritto, impossibile sbagliarsi. Verde e silenzio, silenzio e verde. E il nulla. Il nulla. Non dimenticherò mai quel chilometro trascorso a piedi con la sensazione di trovarsi sola al mondo come nei peggiori film horror, in attesa di arrivare in un luogo dove, settant’anni prima, erano state trucidate e sepolte migliaia e migliaia di persone. E� stata una sensazione stranissima, che definirei tra il terrore e la calma, per quanto, me ne rendo conto, una sensazione simile sia impossibile da immaginare. Arrivo a Panierai, ci sono dei monumenti commemorativi e c’� un percorso da seguire tra ciò che resta delle fosse, ora ovviamente ricoperte da erba. E mentre camminavo pensierosa su quegli spazi, pensando al sangue che vi era stato assorbito qualche decennio prima, e leggevo le targhette esplicative, osservavo la splendida foresta in cui mi trovavo, in un silenzio che pareva urlare. Io, sempre sola. Io, nel silenzio. Quanto ho riflettuto quel giorno…su tante cose, su tutto. I viaggi sono la cosa che più arricchisce al mondo, e quel pomeriggio fu me un’ennesima conferma.
Tutto questo per dire che, non appena ho letto la trama di questo libro della Petrowskaja, il pensiero è corso al quel pomeriggio. Era inevitabile. Il massacro di Babij Jar, il massacro di Ponary. Due luoghi immersi nella foresta, in due nazioni diverse, ma che furono tristi protagonisti di sanguinosi eccidi da parte dei nazisti, durante la Seconda Guerra Mondiale. Sangue e morte nella bellezza di una foresta. Quasi un ossimoro. Non potevo esimermi dal cercarlo e dal leggerlo. In realtà nel libro si parla poco del massacro di Babij Jar, in maniera diretta. L’autrice, nata a Kiev negli anni �70 e cresciuta in Germania, si interroga sul destino di vari membri della sua famiglia, fra cui la nonna Rosa, che durante la guerra salva duecento bambini sopravvissuti all'assedio di Leningrado, lo zio, Judas Stern, processato per aver sparato a un diplomatico tedesco nel 1932, e tanti altri. E forse Esther sì. Forse perché non è sicuro che si chiamasse così, la Petrowskaja interroga il padre ma non ci sono certezze. Si dice però che, nella Kiev del 1941, la bisnonna forse chiamata Esther, chiese a due soldati tedeschi una banale indicazione (forse la strada per il luogo in cui, secondo un’ordinanza, a tutti gli ebrei venne intimato di recarsi, il 29 settembre 1941?) e venne massacrata così, come una mosca, prima ancora di giungere a Babij Jar. Si dice. Forse, ma chi lo sa. Frammenti di memoria, brandelli di informazioni, frasi a metà, fotografie che spuntano dal passato, domande prive di riposte soddisfacenti.
Katja Petrowskaja legge libri, fa ricerche su internet, contatta sopravvissuti della Kiev di quegli anni e visita luoghi, analizzando strumenti diversi, come diversi sono gli idiomi, dal russo al tedesco, coi quali è cresciuta. Il risultato è questo memoir, un collage di ricordi personali, fatti storici e vicende autobiografiche che lascia, nonostante gli sforzi dell’autrice di afferrare l’inafferrabile, un senso di vago, di inadeguatezza, di disagio quasi, proprio per l’impossibilità di avere, alla fine, tutti i tasselli certi del puzzle. E� l’inevitabile risultato della ricerca di molti testimoni di terza e quarta generazione che tentano di ricostruire le radici della loro famiglia, smarrite durante la guerra. E� un libro lieve e feroce, anche qui, quasi un ossimoro.
Chissà quale sarebbe la mia sensazione se visitassi il sito di Babij Jar…la stessa, indimenticabile, provata visitando Ponary?
Profile Image for Andreas Manessinger.
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October 21, 2014
The 2013 Bachmann Prize winner, a book by a woman of Jewish descent, originating from Kiew, married to a German and living and working as a Journalist in Germany since the 1990s. The book is about her search for the past of her family. It is a loose collection of anecdotes, that turns into a sketchy account of her journey to places where remote relatives have lived or were killed, most by the Nazis, one by the Soviets.

My problem with this book is, that the further it progresses, the more it loses structure. It's incoherent. In a way this might be a vehicle to convey the frustration about the past's impenetrability, and in that way it succeeds. As a book it does not satisfy me, though this may well be totally subjective and due to unmet expectations.

If you've read a lot about Jewish life in Europe, you probably won't learn anything new. Still, even then, the "eastern" perspective may be interesting.
Profile Image for Ksenya.
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March 1, 2016
Декілька разів посеред читання я зупинялась і звалювалась у власні думки про свою родину, окремих її членів, особливо бабцю, про тягар пам'яті, про війну, і все те, що пережила ця земля, про Бабин Яр, бо зовсім недавно ми проїжджали повз нього, і я дивувалась, що на вигляд це просто парк, де гуляють люди із псами та дітьми. Часом я припиняла читати від того, що різало очі, і котились сльози. Власне, я не знаю поки кращої книги про дослідження своєї родини, тим паче на цих і не тільки ландшафтах. Про решту поговоримо потім, добре, що є про що.
Profile Image for Gabriele.
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September 14, 2015
Quando ho chiuso il libro e ho dato una nuova occhiata alla copertina, finalmente ho capito cosa l'Adelphi voleva dirci.
L'immagine sul fronte di questo "Forse Esther" è un collage di alcuni fotogrammi di un vecchio film (L’uomo con la macchina da presa, 1929, Dziga Vertov) e mostrano in successione, alternate fra loro, un occhio intento a osservare in varie direzioni e alcune immagini, sfocate, di luoghi difficilmente riconoscibili. È una bellissima rappresentazione del contenuto di questo libro della Petrowskaja, libro che d'altra parte è difficilissimo da riassumere o semplicemente incasellare sotto una sola voce.
È un libro autobiografico, su questo non ci sono dubbi. La Petrowskaja ricostruisce la storia di tutta la sua famiglia, una storia frammentaria e che si snoda non tanto nel tempo quanto toccando buona parte dell'Europa e delle sue culture: fra Polonia, Russia, Austria, in una mescolanza di lingue � tedesco, russo, polacco, ucraino, yiddish, ebraico �, si ripercorre tutta la storia dell'ultimo secolo. Di origini ebraiche, la famiglia della Petrowskaja ha infatti vissuto sulla propria pelle tutte le vicende precedenti e successive alla seconda guerra mondiale: fra nonni dispersi, parenti deportati e internati, prozii implicati in vicende politiche, dinastie di maestri impegnati nell'insegnamento ai sordomuti, nonne di cui neanche ci si ricorda più il nome (la "forse Esther" del titolo), l'albero genealogico che si va a comporre è quanto di più complesso e sorprendente ci potremmo immaginare.
Qui entra però in gioco lo stile di scrittura della Petrowskaja. Uno scrittore "canonico" avrebbe iniziato a raccontare la storia dall'inizio, lei invece sceglie una strada decisamente più tortuosa. Nelle pagine di questo libro si seguono le sue ricerche, si scoprono informazioni man mano che lei stessa le ha acquisite, capita di soffermarsi su parenti scoperti solamente per caso, si seguono i suoi continui viaggi sui luoghi dove qualcuno della famiglia è vissuto o è stato costretto a vivere (da Kiev a Mosca, da Varsavia a Berlino, ma anche nei ghetti e nei lager). Lo stile della Petrowskaja non è mai una cronaca diretta: non semplifica la vita al lettore, preferisce perdersi nei suoi pensieri e raccontargli le cose un po' come vengono. Lo definirei un libro di ricordi, piuttosto che un'autobiografia, un libro di ricordi confusi. E se entrare in sintonia con il suo modo di raccontare all'inizio è tutt'altro che immediato, siamo ripagati da un racconto sentito, profondo, che vuole metterci a parte di tutte le vicende successe alla sua famiglia, ed è anche un modo per farci sentire quanto la sua ricerca sia stata impegnativa, un'idea fissa per diversi anni ("da tempo oramai la mia ricerca era diventata un'ossessione").
E tornando alla copertina, quell'immagine scelta dalla Adelphi rappresenta benissimo il modo di raccontare della Petrowskaja: un continuo guardarsi attorno, a tratti quasi frenetico tanto da non riuscire a mettere neppure a fuoco esattamente cosa sta cercando né cosa voglia raccontarci. A libro finito è infatti difficile dire di aver seguito completamente le vicende: i nomi dei parenti si mescolano fra loro, le vicende si confondono, diventa difficile separare i "forse" dagli "è andata proprio così". Rimane solo la sensazione di aver capito perché la Petrowskaja si è voluta impegnare in questa ricerca, e viene quindi naturale dirsi che non è poi tanto importante aver capito il suo albero genealogico, quanto averla ascoltata raccontare la sua storia.

Quando Lida, la sorella maggiore di mia madre, morì, capii che cosa significa la parola Storia. Il mio desiderio di sapere era maturo, e io ero pronta ad affrontare i mulini a vento del ricordo, ma poi lei è morta. Ero lì con il fiato sospeso, sul punto di domandare, e così sono rimasta, e si fosse trattato di un fumetto la mia nuvoletta sarebbe stata vuota. La Storia comincia quando, all'improvviso, non ci sono più persone alle quali poter domandare, ma solo fonti. Io non avevo più nessuno cui chiedere, nessuno che ricordasse ancora quei tempi. Restavano brandelli di ricordi, appunti e documenti, tutti da verificare e in lontani archivi. Anziché porre a tempo debito le mie domande, mi ero mezzo soffocata con la parola Storia. Ero forse adulta, adesso, perché Lida era morta? Mi sentivo in balia della Storia.
Profile Image for Jenny (Reading Envy).
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October 5, 2021
KATJA PETROWSKAJA was born in Kiev, Ukraine; studied literature at the University of Tartu, Estonia; and conducted her PhD research at Columbia and Stanford Universities. She completed her PhD at the Russian University for the Humanities in Moscow. Since 1999, she has lived and worked as a journalist and columnist in Berlin. Maybe Esther is her first book, which was awarded seven international prizes and translated into nineteen languages.

I enjoy a good research narrative and that's really what this is - more than a memoir, as the author is only barely present in the book, it's the story of Katja's family members, as she traces them through the historical events that forced relocation. Most of her family members were Jewish and lived in Poland, Ukraine, and Russia, with forced moves into Austria and Germany for some. The research takes her to Soviet archives, concentration camp historians, an old rabbi who knew a family member, a former student of the "deaf-mute" schools her family members were known for establishing, and even a former landlord.

There is some reflection by the author on places that do not seem to acknowledge the atrocities that occured where they are. Kiev really stood out this way, where 13k+ Jewish people were killed in two days but the statues of commemoration of that period are about local war heroes instead.

While I found the contents and approach unique, the book took a while to get through, largely due to its fragmentary nature and problematic formatting in the Kindle eBook version (which I paid for, not an ARC.)

My book club read this for September and I missed the discussion but it sounded like it had an overall positive response. I am also counting it for my Europe2021 project.
Profile Image for Lada Moskalets.
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December 19, 2014
Сімейні історії писати легко для себе, але треба постаратися, щоб зробити їх читабельними і цікавими за межами родинного кола. "Vielleicht Esther" це дослідження родинного минулого, в якому емоції від процесу пошуку - споглядання полів по дорозі до табору військовополонених, трепет при відкрив��нні архівних документів - є не менш важливими за персонажів чи трагічні/кумедні/цікаві історії, що потім знайдуться. Родинне минуле є частиною теперішнього, як от стиль жартів, який авторка впізнає у стенограмі судової справи розстріляного родича чи співпадіння у датах народження через покоління. Родина завжди відлунює у тобі і не шкодить, що помітити цю повторюваність можна значно пізніше. Непевність власної родинної історії неуникна - забуті імена, сімейні розповіді, яким уже не віриш, будинки, які розбомбили - але в цій книжці ці білі плями стають повноправною частиною розповіді, як тиша є частиною музики. Те що забуте важливе саме своєю неприсутністю і продовжує впливати на нас, у свій спосіб
Profile Image for Olena Yuriichuk.
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August 31, 2019
В мене нечасто читаються книжки, про які я ще під час перших сторінок готова казати, що хочу, аби вони були моїми. У випадку з "Мабуть Естер" я мала враження, що варто лише підмінити імена головних героїв історії Каті Петровської на героїв моєї сім'ї, як оповідь буде такою ж самою. А скільки таких оповідей нерозказаних є у світі досі?

Катя Петровська - представниця мультикультурної, здебільшого єврейської родини, яка після другої війни забула про свою ідентичність. Слово "забула" тут трохи недоречне, бо чи можна говорити про "забуття", яке було вимушене та нав'язане? Вірю, ви зрозуміли. Поки її брат, віднайшовши оцей зв'язок, кидається вивчати іврит і відновлює приналежність мовою та релігією, Катя з головою поринає в архіви і подорожі і вивчає німецьку. Німецькою пише й книжку, пояснюючи потім в інтерв'ю, що повсякчас намагалася відійти від "ідентичності, яку нав'язує російська мова. Німецькою я вже не маю наперед безумовної рації, я не промовляю тут ні в ролі переможця, ні в ролі жертви (до чого мене так чи інакше спонукає моя східно-європейська історія.) Виникає своєрідний стереофект. Будучи історично виправдано, я можу звернутися до питання, де ми знаходимось як люди - незалежно від того, хто був вашим дідусем".

Дуже потужна книжка, хоча я цілком свідома низького рейтингу читачів на goodreads: не сприйміть як зневагу, та зрозуміти "Мабуть Естер" зможуть або ті, хто полюбляє заплутану прозу, або хто знає, як це: "рясна мрія про велику родину за довгим столом переслідувала мене з невідступністю ритуалу".

Тут і про Київ з його вулицею Флоренцією, і про фікус, який дав життя одному хлопчику, і про Бабин Яр. І про Берлін з його "Бомбардиром", і про сотні перекопійованих архівних сторінок, якими спричинилися "додткові кілограми жахіть", і про випадкових людей, концтабір і тих, кому залишаються вдячними за своє виживання. І про Варшаву з поділом на "гетто" і "Варшаву-до-і-після-повстання", і фото за 70 євро з e-bay, і дім за номером "ені дуже прикро, я геть забула, але то був номер 16, не 14. Вибач, Катєнько, ми скрізь писали номер 14, але сиротинець, і школа, і квартира були під номером 16", і про Майже Естер і долю всіх забутих, знищених, які зараз рахуються тисячами й мільйонами, але рідко коли - людьми.

Якраз коли я стояла навпроти будинку, який могла назвати своїм, і міркувала, чи в той час, коли я народилася, ми мешкали на другому, чи на третьому поверсі, з аптеки вийшла якась стара пані. Вона усміхнулася, і я усміхнулася у відповідь, вона була вся в білому, на ній було довге біле пальто й біле взуття, довге волосся теж було біле й сяяло в легкому білому світлі того туманного дня. Ми стояли доволі довго поряд на перехресті, в нас на світлофорах видно, скільки секунд залишилося, через тридцять секунд вона й далі всміхалася, вона дивилася на мене так, наче впізнала, але сама була переконана, що я її нізащо не впізнаю, а тоді сказала - чи то був докір? - Щось останнім часом я надто часто Вас тут зустрічаю! А я здивовано відповіла, мене не було тут уже багато років. Це не має жодного значення, сказала вона.

Засвітилося зелене. Я була така ошелешена, що стояла, як вкопана, навіть не помітила, як пані зникла. Коли роззирнулася, було знов червоне, пані ніде не було, мов у повітрі розчинилася, і я подумала, що вона має рацію, щось я надто часто сюди повертаюся, справді, подумала я, трохи зачасто.
Profile Image for Ray.
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November 28, 2024
A harrowing tale of a Jewish family destroyed by war. One central theme was the impossibility of piecing together the fragmentary evidence when survival was a lottery and whole family units were obliterated. For me the ethereal tone of the book was a turn off and I got frustrated that there was nothing much to grasp.

I also got the sense that the translation may not have been top notch.

Notwithstanding that I can see that even to write this is a testament to survival and a big FU to a long dead Austrian corporal.
Profile Image for GrauWolf.
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May 20, 2016
Katja Petrowskaja, mano nella mano, accompagna il lettore in un viaggio a ritroso nella storia, sulle tracce di persone e fatti “rimossi� dalla memoria.
È un viaggio amaro, spesso raccontato dall’autrice con un'ironia piuttosto velata, che comincia dagli episodi “familiari� della sua infanzia e culmina nell’orrore della Seconda guerra mondiale. Alcuni dolorosi fatti, da lei narrati, affliggono e indignano il lettore che si trova a contatto con una realtà spaventosa e veramente vicina. Nel testo non importa se si parli dell’Unione Sovietica o del Terzo Reich, perché entrambi i regimi sono vivide rappresentazioni della sconvolgente aberrazione umana, che trova la sua massima espressione nella violenza. E tra le cupe macerie delle dittature del Novecento, l’autrice si muove attraverso le nazioni dell’est Europa per rendere giustizia a una memoria lontana e da molti dimenticata. Ma, soprattutto, per evitare che altri luoghi correlati a raccapriccianti eventi, come la sistematica carneficina della fossa di Babij Jar -dove in due giorni trovarono la morte per mano dei militari tedeschi trentatremilasettecentosettantuno ebrei di Kiev- con una colata di calcestruzzo vengano eliminati dalla memoria collettiva.

Forse Esther è un libro stilisticamente interessante, che spinge il lettore a numerose riflessioni sul Novecento e sulla condizione umana di quel secolo così vicino.

Nell’area c’� un melo dai frutti appetitosi. Il comandante del campo aveva regalato al figlio quattordici prigionieri per il suo quattordicesimo compleanno, furono impiccati a un melo nel giardino del comandante, per decorare l’albero dicevano. Quei quattordici ci toccano più dei mille, 14>1000, ma più di che cosa? Più di un’unità incalcolabile? È forse il modo in cui sono morti oppure quattordici è un numero che riusciamo appena a percepire, e poi la nostra matematica va a pezzi? Giunti a quale numero scompare l’uomo?
Profile Image for Iryna Khomchuk.
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June 30, 2017
Не можу стриматися, аби отак відразу, як-то кажуть, із порогу не заявити: це одна з найкращих книг, прочитаних мною цьогоріч. Глибока, прониклива, емоційна, правдива, важка й тим самим якась катарсична, ця невелика автобіографічна скоріше повість, ніж роман � якщо зважати на обсяг, ця величезна епопея � якщо зважати на зміст підіймає одну з найважливіших складових людської особистості: її національну самоідентифікацію.

Авторка � українка за місцем народження, полька за прізвищем, німкеня за громадянством, єврейка за національністю � шукає своє коріння, вивчаючи генеалогічне дерево родини з усіма його багаточисельними відгалуженнями, виймаючи вкриті пилом фотографії, листи, газети, викликаючи забуті, здавалося б назавжди, спогади, переживаючи те, що відчували давно мертві її предки. Вона не просто перегортає архіви, вона ходить тими дорогами, якими ходили її діди-прадіди-прапрадіди. А оскільки це здебільшого дороги війни, концтаборів та Голокосту, то той біль, котрий звалюється на авторку цієї документальної, попри всю її літературність, книги, місцями годі витримати.

Окремої уваги вартий стиль написання. Тут немає сюжетної лінії, чіткої фабули, розвитку подій, ба навіть діалогів. Книга � це просто рефлексії Каті Петровської, написані � принаймні так видається � для самої себе. Це суміш зі спогадів, переживань, сумнівів, емоцій. Це коктейль із людей і нелюдів, із країн і вулиць, з подій і дат, зі смертей, убивств, забуття... Це щось нове для читача, надзвичайно сильне, неймовірно голосне й однозначно варте прочитання: хоча б задля того, щоб не забути, не забути щонайменше того нашого Бабиного яру, якщо на більше ми поки що (чи ж уже?) не здатні...
Profile Image for Geret.
359 reviews24 followers
November 19, 2024
a btw see peategelase sugupuu koostamine oli korralik pind tagumikus lmao

"... me ei määratle end enam läbi elavate ja surnud sugulaste ega paikade, kus nad viibisid, vaid läbi oma keelte." (72)

"..., sest usun, et ohvritele mõeldes ei ole olemas võõraid. igal inimesel puhkab siin keegi." (170)

"hitler tappis lugejad ja Stalin kirjanikud." (174)
Profile Image for Chequers.
564 reviews31 followers
June 12, 2024
Avete presente quegli amici che tornano da un viaggio e vi raccontano cosa hanno visto e vissuto, magari mostrandovi anche delle foto? E parlano a ruota libera, magari saltando da un luogo all'altro, da un argomento all'altro, ma sempre affascinandovi con le cose che dicono?
Ecco, questo e' stato per me "Forse Esther", un viaggio alla ricerca delle radici dell'autrice ma narrato come fosse un'amica a cena, che vi intriga e vi fa commuovere.
A tratti richiede piu' concentrazione, ma ne vale la pena.
Profile Image for Esther.
Author3 books46 followers
June 20, 2014
Fast schäme ich mich, nicht fünf Sterne vergeben zu wollen, noch nicht einmal vier.

Natürlich ist die Aufarbeitung der Vergangenheit äußerst wichtig und eine Familiengeschichte wie die von Katja Petrowskaja trägt einen relevanten Teil dazu bei. Viele Ereignisse, die sie aus dem Leben der Juden in Kiew und Polen beschreibt, waren mir in dieser Intensität nicht bewusst, von Baij Jar hatte ich persönlich noch nie gehört. Die Geschichtslektionen bewerte ich durchaus hoch.

Die Familiengeschichte der Katja Petrowskaja habe ich nicht durchschaut. Oft war ich verloren in den wechselnden Namen und Orten, den weit entfernten Verwandten und dem verzweigten Familienclan. Vielleicht war ich nicht konzentriert genug.

Die Sprache von Frau Petrowskaja ist reich an Beschreibungen und Vergleichen, manches mal sogar spielerisch, gefüllt mit persönlichen Erkenntnissen und kleinen Lebensweisheiten � und ist in meinen Augen nicht kohärent für eine Erzählung, die die tragischsten Ereignisse der Geschichte Europas im letzten Jahrhundert aufwühlt und in Erinnerung ruft.
Profile Image for Rebecka.
1,185 reviews99 followers
November 28, 2015
This is definitely a book worth reading, and it has made me realize I have to read more post WW2 books., or rather WW2 aftermath books.

The book contains various fragments referring to different relatives and ancestors of the author, usually with a great deal of uncertainty because they were all more or less erased from history. The chapter about Babi Yar is the one that sticks most clearly in my memory. I now can't believe I spent three months in Kiev without visiting Babi Yar. And that I first learned of its existence through Lonely Planet Ukraine... Reading about it in this book really drives home how fucked up a series of events what happened at Babi Yar was - yet how many people outside of Ukraine have even heard of it?

Profile Image for Pulmu.
15 reviews8 followers
September 15, 2015
Petrowskaja searches distant relatives that have scattered around the world due to the WW2. Through the stories of one family the personal becomes universal. And it made me think how we can gather facts and testimonies about the past but still we need the stories to understand what really happened.
Profile Image for Sini.
568 reviews154 followers
May 2, 2015
"Misschien Esther", het debuut van Katja Petrowskaja, is in vele Duitse kranten uitbundig bejubeld. Volkomen terecht, naar mijn smaak: echt een verbluffend prachtig boek, en een overdonderend debuut. Petrowskaja vertelt hierin het verhaal van haar vele verloren Joodse familieleden, die veelal in WO II door Duits oorlogsgeweld of Russische staatsterreur zijn omgekomen. En dat doet ze op een ongelofelijk oorspronkelijke wijze, in een vederlichte en poëtische taal vol onverwachte beelden en associaties. De levens die zij hier hervertelt lijken wel sprookjes, de verloren familieleden lijken wel droomfiguren uit een droevige maar ongehoord rijke droom. Soms lijken de personages zelfs te vliegen op de vleugels van de fantasie, zoals in de verhalen van Bruno Schulz. Soms zijn de verhalen doordrenkt van jubel om de schoonheid en weemoed om de vergankelijkheid van die schoonheid, zoals in het werk van Sebald. En steeds zijn de verhalen verbijsterend en verwonderlijk, vanwege de levensgeschiedenissen die worden verteld maar vooral vanwege de open, onbevangen en dichterlijke blik waarmee Petrowskaja naar die geschiedenissen kijkt.

Een van de zeer vele verhalen gaat over Rosa, de inmiddels overleden oma die op het eind van haar leven helemaal blind was en volkomen onleesbaar schreef. Dat beschrijft Petrowskaja dan zo: "Rosa kriebelde met haar regels tegen haar blindheid in, ze haakte de regels van haar verdwijnende wereld. Hoe duisterder het om haar heen werd, hoe voller zij de vellen beschreef. Er waren passages die onontwarbaar waren als vervilte wol, de aardappelprijzen aan het eind van de jaren tachtig raakten in de knoop met verhalen uit de oorlog en over vluchtige ontmoetingen. Het ene of andere woord sijpelde uit het wollen kreupelhout, de 'zieken', 'Moskou', 'hartenbloed'. Ik heb jarenlang gedacht dat ze te ontcijferen zouden zijn, in Amerika waren er apparaten die zulke regels konden ontwarren, tot ik begreep dat Rosa's schrifturen niet bedoeld waren om te lezen, maar om vast te houden, een dik gedraaide, onverwoestbare draad van Ariadne". Prachtig geschreven, vind ik. Schitterend ook hoe Petrowskaja juist ook de onleesbaarheid van deze onleesbare schriftuur respecteert: hoe zij dus juist de ondoordringbaarheid daarvan vasthoudt en eer bewijst.

Zo doet zij dat ook in haar andere verhalen: steeds blijft het raadsel intact, steeds wordt ruim baan geboden aan het verbazingwekkend vreemde en ongrijpbare van de geschiedenis en aan Petrowskaja's verwondering daarover. Daarbij gebruikt ze steeds ongelofelijk mooie poëtische zinnen en beelden, die vaak erg verrassend zijn en meestal ook heel ontroerend. Zij roept de geschiedenis en de gruwelen daarin niet op met feiten en getallen, maar met treffende poëtische details. Zij schrijft niet in algemeenheden over de jodenvervolging, maar beschrijft individuele levens in hun raadselachtige rijkdom. En dat dan steeds in een verbijsterend rijke en originele taal, die altijd onze verwondering voedt.

Ja, dit is echt een geweldig debuut. Ik hoop nog veel van deze schrijfster te gaan lezen.
Profile Image for Domenico Fina.
285 reviews89 followers
October 1, 2017
Forse Esther di Katja Petrowskaja (Adelphi 2014) e` un libro lieve, rapido, feroce come i veri libri sanno fare. E` la storia degli antenati dell'autrice risuscitati da un io speciale, trasognato e lucido; quello di Katja Petrowskaja, ebrea nata a Kiev nel 1970. Oggi vive a Berlino e scrive in tedesco. Una storia fatta di voci, informazioni sommarie, da google, dai sopravvissuti, dai libri, dall'intuizione, dai sogni. L'autrice ripercorre i passaggi, i luoghi, che hanno condotto i suoi parenti a.

Lo stile personale fatto di flash in capitoli brevi non e` solo necessaria presa di distanza dalla solennita` annichilente degli argomenti, ma l'unico modo possibile (per l'autrice) per arrivare a dire.

In quel "forse" ironico del titolo (poiche` suo padre le racconta di non ricordare con esattezza il nome della sua nonna) c'e` la grandezza del libro. Lo smarrimento dell'io, singolo, in un indistinto Mare di Morte.


(La sua bisnonna. Forse Esther)

Signor ufficiale, sia così gentile, mi dica cosa devo fare. Ho visto gli avvisi per gli ebrei ma fatico a camminare, non riesco a camminare così svelta.

Le risposero con una rivoltellata: la noncuranza di un atto di routine - senza interrompere la conversazione, senza voltarsi del tutto, così, incidentalmente. Oppure no, no. Magari lei aveva chiesto: Sia gentile, Cherr Offizehr, potrebbe dirmi per cortesia come si arriva a Babij Jar? Una richiesta davvero seccante. Chi mai ha voglia di rispondere a domande così stupide?

Osservo questa scena, come fossi Dio, dalla finestra della casa dirimpetto. Forse si scrivono così i romanzi. Oppure anche le fiabe. Siedo in alto e vedo tutto! A volte mi faccio coraggio e mi avvicino e mi metto alle spalle dell'ufficiale, per ascoltare di nascosto la conversazione, ma perché mi voltano le spalle? Giro loro attorno, e ne vedo solo le spalle. Per quanto mi sforzi di guardarli in volto, di vedere i loro volti, quello di Babuška e quello dell'ufficiale. Per quanto allunghi il collo per riuscire a vederli e tenda tutti i muscoli della mia memoria, della mia fantasia e della mia intuizione - non funziona proprio. Non vedo i volti, non capisco, e i libri di storia tacciono.

Se Caino ha ucciso Abele e Abele non ha avuto figli, chi siamo noi allora?
Profile Image for Amina Hujdur.
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July 29, 2021
Dokumentarni roman koji prati jedno porodično stablo iz kojeg naratorica pokušava da rekonstruiše vlastitu prošlost i otkrije svoj identitet.

Okvirna tematika romana je stradanje poljskih i ukrainskih Jevreja u II svj.ratu i negiranje holokausta i njegovih žrtava koje je prisutno sve do danas.

Ono što roman čini vrijednim su opaske i razmišljanja, unutrašnji monolozi i digresije autorice. Iz toka njene svijesti saznajemo njene misli, stavove i univerzalne životne zaključke.
Neki od citata koji su me dojmili:

"Ostaje li neko mjesto isto ako se na tom mjestu ubija, zatim zakopava, minira, iskopava, spaljuje, melje, posipa, šuti, ozelenjava, laže, odlaže otpad, plavi, betonira, opet šuti, ograđuje, hapsi ožalošćene, a zatim se naknadno podiže deset spomen-obilježja, odaje počast svojim žrtvama jednom godišnje, ili se misli da nemaju nikakve veze s tim?"

"Nisam imala razloga da patim. Uprkos tome ja sam patila, već zarana, iako sam bila sretna i voljena, okružena prijateljima, okružena prijateljima, bilo mi je neprijatno što patim, ali uvijek sam iznova patila zbog te ponekad intenzivno bolne osamljenosti, ponekad gorke poput vermuta, i mislila sam da to dolazi zbog toga što mi nešto nedostaje. Veliki san o ogromnoj porodici za jednim dugim stolom proganja me ustrajnošću izvjesnog rituala."
Profile Image for Jan.
1,000 reviews70 followers
May 24, 2015
Beautiful novel, or rather a novella (there is no such thing as a character development, essential feature of a novel)! It really is. It may be built upon many different fragments of the family history, but not documentary. Anyway, literary it surely is.
Babi Yar and Mauthausen made the biggest impression on me.
Petrowskaja’s style in this book consists of so many � related � gems, what ever comes to use. Her sentences sometimes are short, the somewhat longer ones have semi-repetitions, not identical, but like ‘minimal music� with slight alterations, through which the significance grows. Rare are her very long sentences; yet, they too have a strong nucleus. Het writing is associative, sensual. Her language is full of striking sayings, expressions, metaphores which have an immediate impact.
Sometimes the author puts herself on a philosophical distance from her subject. There is the topic of the large numbers; can one comprehend them truly? There is the story of the flight of a number of Jews in a truck, in which a large plant was already loaded; when time was running out, someone smashed the plant out of the truck to make room for another person; how Petrowskaja gets hooked on whether or not this part of the story had really happened and attaches this to the matter of the truth of one’s memory � the effect this approach had on me, was one of getting involved with this family, more than at a normal ‘reader’s distance�.
Highly recommended. JM
Profile Image for Ffiamma.
1,319 reviews148 followers
January 22, 2015
"la storia comincia quando, all'improvviso, non ci sono più persone alle quali poter domandare, ma solo fonti"
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