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Vittorio Ducoli's Reviews > L'Imperio

L'Imperio by Federico De Roberto
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La putredine borghese italiana: seconda puntata

La fama di Federico De Roberto è oggi legata soprattutto a I Viceré, il grande romanzo che narra le vicende della potente famiglia degli Uzeda Di Francalanza nella seconda metà del XIX secolo e la capacità dei suoi rappresentanti di conservare il potere adattandosi ai nuovi tempi iniziati con l’annessione del regno borbonico a quello sabaudo. Peraltro, se oggi I Viceré è (quasi) unanimemente considerato un capolavoro letterario e uno dei romanzi più importanti dell�800 italiano, al suo apparire nel 1894 ebbe scarsissimo successo, e in seguito a lungo su di esso pesò la celebre critica espressa da Benedetto Croce nel 1939: ”foltissimo di personaggi, di macchiette, di eventi, di costumanze, di descritte trasformazioni e trasfigurazioni sociali, il libro del De Roberto è prova di laboriosità, di cultura e anche di abilità nel maneggio della penna, ma è un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore�, critica che Croce estende alla levatura artistica dell’autore, che a lui pare ”fosse ingegno prosaico, curioso di psicologia e di sociologia, ma incapace di poetici abbandoni�. Questi giudizi a mio avviso sono emblematici di come l’idealismo crociano, basando essenzialmente la valutazione di un’opera letteraria sul suo livello estetico o poetico (meraviglioso è a questo proposito, nella sua assoluta inconsistenza critica, quel richiamo ai poetici abbandoni di cui uno scrittore dovrebbe essere capace per esser giudicato artista), non fosse strutturalmente in grado di cogliere l’oggettiva importanza di un’opera d’arte. Sta di fatto che, anche a causa di Croce e dei suoi epigoni, De Roberto è stato a lungo relegato tra la schiera dei minori della stagione verista.
Se oggi dunque a I Viceré è stato restituito il posto che letterariamente merita, meno noto è il fatto che esso forma il cuore di una trilogia di romanzi dedicati all’aristocratica famiglia siciliana, che comprende anche ’iܲDzԱ, pubblicato nel 1891, e ’I, incompiuto ed uscito postumo nel 1929. Come fa notare Nunzio Zago con una efficace immagine nella sua bella introduzione al romanzo edito da Rizzoli, il trittico compone una specie di retablo (richiamo all’arte spagnola certo non casuale) del quale I Viceré costituisce la tela centrale e gli altri due romanzi altrettanti pannelli laterali. Ciò in quanto il romanzo maggiore, dedicato alle vicende della dinastia, ha un respiro sconosciuto agli altri due episodi, che narrano le vicende di singoli suoi rappresentanti.
’I, in particolare, si pone in diretta continuità de I Viceré. Chi ha letto quest’ultimo romanzo ricorderà che esso si chiude nel 1882, con l’elezione a deputato del giovane rampollo della famiglia, il trentenne Consalvo Uzeda Di Francalanza, nelle file della Sinistra Storica. L’entrata in politica, dapprima come sindaco, quindi come deputato, è per Consalvo il modo attraverso il quale può conservare ed espandere nel nuovo contesto sociale il potere che la sua famiglia esercita da secoli. Gli Uzeda esprimevano già un senatore conservatore di nomina regia, il Duca d’Oragua, dedicatosi assiduamente lungo vent’anni all’affarismo e a speculazioni di piccolo cabotaggio, ma l’ambizione di Consalvo è ora di diventare protagonista della politica nazionale.
Il suo progressivismo moderato - le cui fatue basi ideologiche sono magistralmente esposte da De Roberto nel comizio tenuto alla vigilia delle elezioni � è del tutto strumentale: Consalvo rimane un aristocratico sprezzante, ma sa che con il suffragio allargato (la riforma elettorale del 1882 diede il diritto di voto a circa un quarto della popolazione maschile adulta) è necessario fingere di schierarsi dalla parte del popolo per essere votato, e riesce nel suo intento, risultando il primo degli eletti nel suo collegio.
Il primo capitolo de ’I è dedicato ad una seduta parlamentare, quella che realmente si tenne il 19 maggio 1883, durante la quale il traballante governo di Agostino Depretis, esponente della Sinistra Storica, ottenne la fiducia di parte della Destra, inaugurando la stagione del trasformismo. La seduta, ai cui protagonisti De Roberto attribuisce nomi di fantasia, è vista da una prospettiva particolare: quella della tribuna della stampa, dove per la prima volta siede, accanto ai più noti cronisti parlamentari romani, il ventitreenne Federico Ranaldi, praticante in uno studio legale, da poco giunto a Roma da Salerno. Figlio di un dirigente pubblico già al servizio dei Borbone e per questo costretto dalla nuova amministrazione ad una carriera monca fatta di continui trasferimenti, Federico, animato da sentimenti patriottici e con ambizioni giornalistiche, sarà � insieme a Consalvo Uzeda � il protagonista del romanzo. Quest’ultimo, durante la discussione sulla fiducia all’esecutivo terrà il suo primo intervento alla camera, inopportuno per la lunghezza e per il taglio che poco c’entra con il punto all’ordine del giorno, salutato dall’indifferenza e dall’ironia dell’emiciclo e dei cronisti.
Nel secondo capitolo il romanzo fa un breve salto all’indietro, narrando l’arrivo a Roma di Consalvo Uzeda nell’inverno precedente all’apertura della legislatura (che forse per una svista De Roberto indica come la XIV, mentre si trattava della XV) e riprendendo il filo delle ambizioni di potere personale che lo hanno spinto alla vita parlamentare. Come già di fatto dichiarato nel comizio catanese, Consalvo si tiene tutte le porte aperte, esprimendo opinioni diverse e restando comunque sempre sul vago a seconda che parli con esponenti governativi, dell’opposizione o con le delegazioni di elettori giunte a rendergli omaggio dalla Sicilia. Entra nei salotti buoni di Roma ma nonostante la sua spregiudicatezza, il servilismo verso i leader politici e l’indubbio fascino personale non trova la chiave per emergere dalla massa degli anonimi parlamentari che oggi definiremmo peones.
Il quarto capitolo del romanzo è dedicato a Fedrico Ranaldi: un lungo flashback narra della sua formazione, dell’insofferenza per le aspirazioni familiari che lo vogliono avvocato, degli inevitabili compromessi che deve accettare, del suo entusiasmo giovanile per il Risorgimento, la monarchia e la Destra Storica che hanno fatto il paese, delle sue smanie per andare a vivere a Roma, nel cuore stesso della vita politica del Paese, in cui giunge come accennato dopo la laurea, entrando nello studio di un avvocato e deputato amico del padre. Quest’ultimo, oltre che dargli le prime lezioni di realismo politico, gli propone presto di collaborare con un quotidiano che sta nascendo, finanziato tra gli altri da Consalvo Uzeda, con il compito di ispirare la formazione di un nuovo soggetto politico, né di destra né di sinistra.
I due entrano così in contatto e Federico da un lato si farà apprezzare per le sue capacità giornalistiche, dall’altro si renderà presto conto di come i suoi ideali non trovino riscontro nella vita politica e intellettuale concreta, fatta di arrivismo, affarismo e ipocrisia.
Se i primi cinque capitoli si svolgono in un arco temporale molto ristretto - i primi mesi della vita romana dei due protagonisti - con il sesto il lettore si trova ad essere proiettato avanti di dieci anni, come peraltro intuisce solo da un accenno di Consalvo Uzeda. Nonostante il suo attivismo e il supporto del quotidiano egli non è riuscito ad emergere, e per questo è sempre più acido verso la vita politica. I tempi stanno rapidamente mutando e le istanze socialiste raccolgono sempre maggiori consensi, essendo ovviamente viste come una terribile minaccia dalle classi dominanti. Uzeda è tentato di buttarsi a sinistra, ma quando i circoli conservatori gli chiedono di tenere una conferenza antisocialista egli accetta; un intero capitolo riporta il discorso, sotto forma quasi di resoconto stenografico, analogamente a come De Roberto riportò il comizio di Catania ne I Viceré. Questo discorso e le sue conseguenze apriranno finalmente a Consalvo Uzeda Di Francalanza le porte dell’agognato potere, con la sua nomina, pochi mesi dopo, a ministro dell’interno.
Nel nono e ultimo capitolo c’� un ulteriore salto temporale, e il lettore ritrova Federico Ranaldi ormai quarantenne (siamo quindi nel 1900) tornato a Salerno dai genitori, ormai completamente disilluso e convertitosi ad un nichilismo ontologico che vede nell’animo umano l’origine del male e perciò ne augura la distruzione, a cominciare da sé stesso tramite il suicidio. Da accenni contenuti nei lunghi monologhi interiori di Federico si viene a sapere che il ministro Di Francalanza è stato costretto a dimettersi dopo i disordini di piazza seguiti ad una disastrosa avventura coloniale (richiamo alla sconfitta di Adua).
Come accennato sopra, ’I è un romanzo incompiuto, anche se De Roberto pose la parola Fine in calce all’ultimo dei nove lunghi capitoli in cui è suddiviso. È indubbio però che quelli effettivamente scritti non fossero tutti i capitoli di cui si dovesse comporre nelle intenzioni dell’autore, come si evince dai due repentini salti temporali tra i quali accadono fatti essenziali, che avrebbero dovuto essere narrati per conferire continuità logica al romanzo. Inoltre, nonostante il testo attualmente edito derivi da un dattiloscritto annotato dall’autore ritrovato nel dopoguerra, la presenza di numerose sviste, quali ad esempio personaggi che cambiano nome, evidenziano un mancato lavoro di revisione, tanto più da parte di un autore pignolo come De Roberto, che infatti non lo pubblicò nonostante l’importanza che a lungo gli attribuì.
La lunga genesi riveste a mio avviso un notevole interesse per l’analisi del romanzo; la riassumo traendola dalle prime pagine del citato saggio introduttivo di Nunzio Zago.
In una delle tante lettere scritte all’amico Ferdinando De Giorgi, alla fine del 1895, De Roberto afferma di avere iniziato da ben due anni a scrivere un romanzo intitolato ’i (con la i minuscola): ”sta per ora a dormire: ne ho scritto cinque capitoli, ma mi spaventano le difficoltà�. Al proposito si deve ricordare come lo sforzo di portare a termine I Viceré, accanto all’insuccesso editoriale del romanzo, avesse prostrato moralmente e fisicamente l’autore.
Di una rilettura di quanto scritto una decina di anni prima De Roberto torna a parlare solo nel 1902, poi di nuovo il silenzio sino a quando nel 1908 egli si reca a Roma, sia per sfuggire all’opprimente rapporto con la madre, sia per documentarsi sulla vita politica e giornalistica della capitale, con l’intento dichiarato di riuscire a riprendere e terminare il romanzo, cosa che non farà.
Non si sa quindi con certezza quando De Roberto abbia scritto gli ultimi quattro capitoli, ma è molto probabile che tra questi e i primi cinque corra almeno un decennio. Considerati i due stacchi temporali presenti nel romanzo, cui corrispondono a mio avviso variazioni di atmosfera ed in qualche modo anche stilistiche, avanzo l’ipotesi � non so se già proposta da qualche critico � che ad essi corrispondano analoghi stacchi nella loro redazione: ai primi cinque capitoli scritti nel 1893, subito dopo aver licenziato I Viceré, ritengo facciano seguito tre capitoli scritti una decina d’anni dopo, nel 1902, e quindi l’ultimo, scritto dopo il viaggio a Roma. In questo modo De Roberto avrebbe di fatto sempre mantenuto un distacco temporale reale di circa 10 anni dai fatti narrati, fissando i punti di snodo del romanzo e riservandosi forse di riempirlo in seguito con capitoli di passaggio. Ancora successiva è forse la resa di fronte alle difficoltà, rappresentata plasticamente dal posticcio, incongruo e quasi ridicolo finale, e dalla parola Fine che assume un carattere drammaticamente ironico, segnalando la coscienza dell’autore del suo fallimento.
Alla distanza temporale fra i tre blocchi del romanzo corrisponde un progressivo incupimento dei toni, frutto probabilmente del fatto che - fra scandali finanziari e avventure coloniali fallimentari - la pochezza, l’improvvisazione, l’affarismo e la corruzione che caratterizzavano la scena politica dell�Italietta stavano andando ben oltre quanto concepito dallo scrittore; a ciò si sommava il peso dei propri fallimenti esistenziali ed editoriali. Così, i tre capitoli del secondo blocco sono dominati dalla crescente angoscia della classe dominante di perdere il potere per l’ascesa del socialismo, mentre il cinismo arrivista di Consalvo Uzeda raggiunge livelli drammatici, portandolo a strumentalizzare a suo favore un attentato e la morte dello zio, oltre che a macchiarsi di uno stupro che ne rivela l’animo brutalmente dominatore anche nei rapporti sentimentali. Nell’ultimo capitolo giunge a compimento anche la disillusione di Federico Ranaldi - personaggio intimamente autobiogafico (se ne osservi il nome) - rispetto ai suoi ideali rinascimentali. È significativo che il pessimismo esistenziale cui giunge Federico somigli molto a quello cui giunge l’autore, che nel 1909 in una lettera scrive: ”L’italia è una putredine e Roma è il cancro che la distrugge. Questo è un paese che il diavolo potrebbe portarselo via. Tutta la nostra vita è uno schifo, uno schifo, uno schifo�. Il borghese moderato De Roberto, che aveva colto fra i primi come la classe cui apparteneva avesse permesso, soprattutto nel meridione, agli antichi padroni feudali di continuare a comandare, rinunciando con ciò al proprio compito storico, si trova di fronte ora alle inevitabili conseguenze peggiori di tale rinuncia, e non può che reagirvi facendosi letterariamente latore, per bocca di Federico Ranaldi, di un nichilismo assoluto, tra l’altro dichiaratamente antipositivista. È da notare come il sostantivo putredine fosse già stato usato anni prima da un altro scrittore per qualificare l’essenza della borghesia romana post-unitaria: Gaetano Carlo Chelli, in L’eredità Ferramonti, uscito nel 1883.
L’ultimo capitolo è il più sorprendente anche da un punto di vista stilistico: se è vero che l’autore rimane fedele per tutto il romanzo ai canoni della scrittura verista � impersonalità ed invisibilità dall’autore, linguaggio piano, largo uso dei dialoghi e dell�indiretto libero - è qui che quest’ultima tecnica, nella quale vengono espresse le lunghe riflessioni di Federico, assume una tale rilevanza da sfociare in pratica nel monologo interiore, e Federico finisce quasi, per la sua presa di coscienza della crisi e per il modo in cui esprime i suoi pensieri, per divenire un personaggio novecentesco. Paradossalmente, ma solo apparentemente, il verista De Roberto, proprio per rimanere formalmente fedele al principio di osservazione scientifica della realtà sotteso al romanzo di derivazione naturalista, è costretto a descrivere una realtà talmente torbida e degradata da non poter essere resa se non facendole assumere aspetti ontologici. Ed è così che l’ultimo episodio del ciclo degli Uzeda, pur con le sue lacune e la sua frammentarietà, si trasforma, forse al di là delle intenzioni dell’autore, nel disperato annuncio delle immani tragedie che colpiranno il Paese nei decenni successivi, tra cui l’ennesimo (ma non ultimo) tradimento di una borghesia putrida che per conservare la roba lo venderà ad un tragico macchiettista romagnolo.
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Reading Progress

December 9, 2010 – Shelved
May 15, 2023 – Started Reading
June 6, 2023 – Finished Reading

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