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Ho fatto una rece caustica in centro a Bologna, ma era solo per litigare
A 14 anni uscivo dalla fase dei romanzi storici d’avventura, cappa e spada, pirati. Ancora parzialmente sedato da Hugo, Dumas, Salgari e Perez-Reverte mi orientai verso questo volume dal titolo misterioso e minimalista all’apice del suo successo e con la vaga idea che avrebbe potuto piacermi. Profondamente deluso, non riuscii a superare pagina 100 e nei 15 anni successivi ho portato l’infame marchio dell’eretico quando in consessi di sinistra più o meno militante osavo dire che non avevo letto Q perché non mi era piaciuto. I Wu Ming sono una sorta di feticcio del panorama contro-culturale italiano, a volte a giusto titolo per la pertinenza di certe loro analisi su fenomeni politici e sociali, ma mi è sempre parso che la lettura di Q fosse considerata un rito di passaggio, o un prerequisito, anche solo per poter leggere e opinare sul resto della loro produzione. Schiere di persone dai gusti e idee affidabili scuoteva la testa con fare costernato quando ammettevo la mia delusione nei confronti di Q. Mi sono fatto coraggio, davanti alla mole del librone, dicendomi -se hai letto �3 metri sopra al cielo� per dire che è brutto, lo puoi fare anche con Q-.
L’esperienza è stata frustrante, e la mia impressione finale è ambivalente. Per quasi 250 pagine la prosa è sincopata, affannosa, confusa. Il protagonista che dovrebbe essere enigmatico risulta invece privo di personalità , povero di motivazioni, appena tratteggiato. Secondo le regole della narrativa, il conflitto pero c’�, anzi è ovunque. Q è fondamentalmente un libro sul conflitto (sociale) in tutte le sue sfaccettature, il protagonista vi partecipa quasi ossessivamente per rispondere ad una non meglio delineata sete di giustizia. In ogni suo aspetto, il progetto politico degli autori, sbrodola nella narrazione: i subalterni e gli oppressi, dimenticati dalla Storia, sono invece il centro di questa storia ma senza una caratterizzazione e senza empatia. I subalterni sono massa e li si riconosce grazie a descrizioni grondanti fango, sangue, cacca. I comprimari della vicenda sono fanatici (com’� giusto che sia durante una guerra di religione) ma con un retrogusto da intellettuale di movimento. Il tono costante delle sequenze meno rutilanti è il soliloquio rassegnato e pessimista dei veterani dei movimenti dei nostri giorni: la metafora è cosi sguaiata che impedisce attivamente di perdersi nell’ambientazione storica e pare di star con capelloni scalzi a fare aperitivi tristi in piazza a Bologna.
Tuttavia il filo rosso che guida la lettura, l’intrigo di Q, permette di astrarre dai tafazzismi dei protagonisti e arrivare al punto di svolta del libro. Il protagonista sfinito dall’ennesima fallimentare stagione di lotte, racconta le sue peripezie ad un proto-hippie di Anversa, mette ordine alla storia, illumina in maniera coerente l’affaticata prosa da sceneggiatura da film d’azione della prima parte. I riferimenti apocalittici si concretizzano nella lungimiranza del proto-hippie, osservatore privilegiato della nascita del capitalismo mercantile.
La serie di capitoli che seguono questa parte si tingono di pragmatismo, il contesto storico è ormai delineato chiaramente e l’intrigo si può dipanare con maggiore coerenza. La prosa si fa più discorsiva e godibile e il libro decolla definitivamente. La resa dei conti si fa meno improbabile, il protagonista diventa artefice consapevole del suo destino e il lettore, con lui, smette di essere sballottato tra i fossi fangosi d’Europa. Volendo essere antipatici, il protagonista, in origine colto e benestante, comincia a fare i soldi, a frequentare le élite sovversive, all’impostura del soldato di Dio che vuole emancipare gli oppressi viene preferito un attacco frontale alle leve del potere economico e anche la narrazione beneficia del passaggio tra lo sperimentale della “Storia dal basso�, ad un modo di raccontare più vicino ai canoni del romanzo storico.
Dove il libro eccelle da questo punto in poi e nella costruzione della suspense in vista della resa dei conti finale, il ritmo del racconto diventa assimilabile ad un romanzo di John LeCarré: la manipolazione della verità , dell’identità e del potere, anche. Accorgersi di questo fa rivalutare anche la prima parte, perché anche LeCarré costruisce trame particolareggiatissime che non sembrano andare da nessuna parte finché non decide di spingere sull’acceleratore e svelare al lettore i suoi piani. Q nelle ultime cento pagine è una corsa a perdifiato che mitiga l’impressione che sia un libro sopravvalutato. Si finisce perfino ad affezionarsi un po� al protagonista, il cui anonimato è funzionale alla storia ma nemico dell’immedesimazione del lettore.
Sul rigore storico di un libro che marca l’esordio di un collettivo che all’epoca aveva un’età media inferiore ai 30 anni non si può che rimanere impressionati. Sull’ambizione politica c’� poco da dire: il libro è opera collettiva, il soggetto (anzi, la soggettività ) di riferimento è “la massa�, le cui motivazioni sono notoriamente difficile da intuire (anche con i sondaggi), questo affollamento di autori e protagonisti genera agorafobia durante la lettura.
In ultima analisi, avrei voluto fare la voce fuori dal coro ancora per un po�, ma avevano ragione quelli che mi tacciavano di apostasia. Se il libro appare sopravvalutato forse è perché è difficile da definire. Come esperimento pero�, mi tocca dire che è riuscito. 3 stelle perché non intendo perdonare la noia e lo smarrimento delle prime 250 pagine.
A 14 anni uscivo dalla fase dei romanzi storici d’avventura, cappa e spada, pirati. Ancora parzialmente sedato da Hugo, Dumas, Salgari e Perez-Reverte mi orientai verso questo volume dal titolo misterioso e minimalista all’apice del suo successo e con la vaga idea che avrebbe potuto piacermi. Profondamente deluso, non riuscii a superare pagina 100 e nei 15 anni successivi ho portato l’infame marchio dell’eretico quando in consessi di sinistra più o meno militante osavo dire che non avevo letto Q perché non mi era piaciuto. I Wu Ming sono una sorta di feticcio del panorama contro-culturale italiano, a volte a giusto titolo per la pertinenza di certe loro analisi su fenomeni politici e sociali, ma mi è sempre parso che la lettura di Q fosse considerata un rito di passaggio, o un prerequisito, anche solo per poter leggere e opinare sul resto della loro produzione. Schiere di persone dai gusti e idee affidabili scuoteva la testa con fare costernato quando ammettevo la mia delusione nei confronti di Q. Mi sono fatto coraggio, davanti alla mole del librone, dicendomi -se hai letto �3 metri sopra al cielo� per dire che è brutto, lo puoi fare anche con Q-.
L’esperienza è stata frustrante, e la mia impressione finale è ambivalente. Per quasi 250 pagine la prosa è sincopata, affannosa, confusa. Il protagonista che dovrebbe essere enigmatico risulta invece privo di personalità , povero di motivazioni, appena tratteggiato. Secondo le regole della narrativa, il conflitto pero c’�, anzi è ovunque. Q è fondamentalmente un libro sul conflitto (sociale) in tutte le sue sfaccettature, il protagonista vi partecipa quasi ossessivamente per rispondere ad una non meglio delineata sete di giustizia. In ogni suo aspetto, il progetto politico degli autori, sbrodola nella narrazione: i subalterni e gli oppressi, dimenticati dalla Storia, sono invece il centro di questa storia ma senza una caratterizzazione e senza empatia. I subalterni sono massa e li si riconosce grazie a descrizioni grondanti fango, sangue, cacca. I comprimari della vicenda sono fanatici (com’� giusto che sia durante una guerra di religione) ma con un retrogusto da intellettuale di movimento. Il tono costante delle sequenze meno rutilanti è il soliloquio rassegnato e pessimista dei veterani dei movimenti dei nostri giorni: la metafora è cosi sguaiata che impedisce attivamente di perdersi nell’ambientazione storica e pare di star con capelloni scalzi a fare aperitivi tristi in piazza a Bologna.
Tuttavia il filo rosso che guida la lettura, l’intrigo di Q, permette di astrarre dai tafazzismi dei protagonisti e arrivare al punto di svolta del libro. Il protagonista sfinito dall’ennesima fallimentare stagione di lotte, racconta le sue peripezie ad un proto-hippie di Anversa, mette ordine alla storia, illumina in maniera coerente l’affaticata prosa da sceneggiatura da film d’azione della prima parte. I riferimenti apocalittici si concretizzano nella lungimiranza del proto-hippie, osservatore privilegiato della nascita del capitalismo mercantile.
La serie di capitoli che seguono questa parte si tingono di pragmatismo, il contesto storico è ormai delineato chiaramente e l’intrigo si può dipanare con maggiore coerenza. La prosa si fa più discorsiva e godibile e il libro decolla definitivamente. La resa dei conti si fa meno improbabile, il protagonista diventa artefice consapevole del suo destino e il lettore, con lui, smette di essere sballottato tra i fossi fangosi d’Europa. Volendo essere antipatici, il protagonista, in origine colto e benestante, comincia a fare i soldi, a frequentare le élite sovversive, all’impostura del soldato di Dio che vuole emancipare gli oppressi viene preferito un attacco frontale alle leve del potere economico e anche la narrazione beneficia del passaggio tra lo sperimentale della “Storia dal basso�, ad un modo di raccontare più vicino ai canoni del romanzo storico.
Dove il libro eccelle da questo punto in poi e nella costruzione della suspense in vista della resa dei conti finale, il ritmo del racconto diventa assimilabile ad un romanzo di John LeCarré: la manipolazione della verità , dell’identità e del potere, anche. Accorgersi di questo fa rivalutare anche la prima parte, perché anche LeCarré costruisce trame particolareggiatissime che non sembrano andare da nessuna parte finché non decide di spingere sull’acceleratore e svelare al lettore i suoi piani. Q nelle ultime cento pagine è una corsa a perdifiato che mitiga l’impressione che sia un libro sopravvalutato. Si finisce perfino ad affezionarsi un po� al protagonista, il cui anonimato è funzionale alla storia ma nemico dell’immedesimazione del lettore.
Sul rigore storico di un libro che marca l’esordio di un collettivo che all’epoca aveva un’età media inferiore ai 30 anni non si può che rimanere impressionati. Sull’ambizione politica c’� poco da dire: il libro è opera collettiva, il soggetto (anzi, la soggettività ) di riferimento è “la massa�, le cui motivazioni sono notoriamente difficile da intuire (anche con i sondaggi), questo affollamento di autori e protagonisti genera agorafobia durante la lettura.
In ultima analisi, avrei voluto fare la voce fuori dal coro ancora per un po�, ma avevano ragione quelli che mi tacciavano di apostasia. Se il libro appare sopravvalutato forse è perché è difficile da definire. Come esperimento pero�, mi tocca dire che è riuscito. 3 stelle perché non intendo perdonare la noia e lo smarrimento delle prime 250 pagine.
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Reading Progress
June 7, 2021
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Started Reading
July 7, 2021
– Shelved
July 11, 2021
–
Finished Reading