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“Civil order mattered.
Zoe didn’t know why Farah continued to wear the headscarf, but most Middle-Eastern women wore modest clothing to anchor themselves to a moral order, in an upside-down world.
Zoe wore the chador as a protective shell, to erase herself, to avoid thinking, to envelop herself in the complete custody of her adopted Muslim sisters. In their care she would come out healed, able to process the bigotry that caused the murder of her Jewish parents. Then, when she was whole again, she would reclaim her place in the world.
Though others couldn’t see it, behind the nameless, shapeless, Middle-Eastern garb, she was healing. The chador cocooned and nurtured her. Dour exteriors meant blossoming interiors . . . to Zoe. Judaism centered her, but Islam shielded her. Both served their purpose . . . for now.”
― Michael Benzehabe

“Le due fotografie davanti a me andrebbero viste in successione. Entrambe incarnano la «fragile irrealtà» - per citare Nabokov a proposito della sua condizione di esule - della nostra vita nella Repubblica islamica dell'Iran. Una foto annulla l'altra, eppure si completano a vicenda. Nella prima, in piedi con il velo e la veste neri, è come se uscissimo dai sogni di qualcun altro. La seconda, invece, mostra l'immagine che abbiamo di noi stessa. In nessuna ci sentiamo davvero a nostro agio.
La seconda foto ci ritrae nel nostro "altro mondo", il soggiorno di casa mia. Fuori però, per quanto dalla finestra si intravedessero solo le montagne e i rami più alti degli alberi, c'era la nostra vita quotidiana, popolata di furie e di streghe malvagie che ci aspettavano dietro l'angolo, per trasformarci nelle creature incappucciate della prima immagine.”
― Azar Nafisi, Reading Lolita in Tehran: A Memoir in Books