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La voce (Ispettore Erlendur #5)
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** spoiler alert **
IL LUTTO NON SI ADDICE A BABBO NATALE

L’ispettore Erlendur nella sua per ora unica apparizione cinematografica, interpretato da Ingvar Eggert Sigurðsson, nel bel “Mýrin � Jar City� del 2006, mai uscito in Italia, diretto dal bravo e poliedrico Baltasar Kormákur.
La voce del titolo è quella del morto che da bambino aveva una voce bianca e cantava in modo più unico che raro al punto che gli si stava per spalancare davanti una luminosa carriera (già due vinili registrati a suo nome), interrotta bruscamente dal cambio di voce durante un importante concerto.
E così, nel giro di un attimo, dalle stelle alle stalle, dall’altare alla polvere.
Fu vera gloria?
No, non si direbbe: il bambino voleva esaudire le ambizioni paterne più che le proprie. E tutto sommato, una volta che le luci del palcoscenico si sono spente (per lui, ma anche per il padre), il cucciolo d'uomo era quasi più contento.
Se non che nel frattempo era diventato lo zimbello dei coetanei, cresceva la sua omosessualità che teneva nascosta, repressa e sigillata, e sviluppava opposizione verso il genitore rimasto, il padre (la madre morta troppo presto, ahilui).
La sorella, leggermente più grande, avrebbe molto desiderato una parte delle attenzioni dirette al fratello, che a lei venivano sistematicamente negate. Sottratte.
Crescendo, “la voce� diventa portiere d’albergo, e tuttofare, alloggiato nel sottoscala dell’albergo fino al giorno della morte per accoltellamento (a Indriðason piacciono i coltelli). Lo trovano coperto di sangue vestito da babbo natale che stava preparandosi per la festicciola prenatalizia per i piccoli ospiti dell’hotel.

”Mýrin� è l’avventura numero 3 dell’ispettore Erlendur: in Italia il romanzo è uscito col titolo “Sotto la città�.
A Indriðason piace anche accennare a un secondo filone d’indagine, a un altro caso non principale, è sua caratteristica ricorrente: un bambino (un altro) picchiato di brutto � da chi, dai suoi coetanei o invece, come crede la polizia, dallo stesso padre?
E perché a Indriðason piacciono tanto i bambini?
Perché l’ispettore Erlendur che sovrintende alle indagini di tutti i casi di questa fortunata serie (fortunata in quanto a vendite, più che a qualità letteraria) quando aveva dieci anni, quando era quindi ancora bambino, ha perso il fratellino nella brughiera sommersa dalla neve.
Perché lui si è salvato? Perché il fratello è morto? Perché il suo corpicino non è mai stato ritrovato?
Trionfo di senso di colpa, e corposo filone di riflessioni mogie che l’ispettore, per mano di Indriðason, avvia quando occorre una pausa nell’indagine principale.

Altra caratteristica dello scrittore di gialli islandese è che il morto compaia a pagina 1 e per le restanti trecento e rotte pagine si cerchi chi è stato a ucciderlo.
Per farlo, i poliziotti protagonisti (Erlendur e due colleghi, una donna e un uomo) fanno un sacco di domande, incontrano e interrogano un numero sterminato di persone, si lasciano andare a riflessioni e quesiti un po� banalotti. Del tipo: aver scoperto che nella saliva del presunto assassino ci sono tracce di tabacco da masticare spinge Erlendur a chiedersi che aiuto possa fornire un simile dato. Come se a Reykjavik, o in Islanda, masticare tabacco come facevano i cowboy fosse pratica diffusa (non lo è: il tabacco da masticare è quasi introvabile, è rimasto uno solo a farlo).
Non ci sono altri omicidi nel corso delle trecento e rotte pagine: se muore qualcun altro è per suicidio o incidente.
Non c’� traccia di corruzione, né politica né economica, non compare malavita, criminalità organizzata. Sono delitti molto casuali.
A me verrebbe da definire Indriðason giallista sociologo: più interessato all’aspetto sociologico, alla descrizione della classe mediobassa islandese, di vite stente, che a un robusto plot, o ad approfondimenti psicologici.

Il protagonista, l’ispettore Erlendur, non è molto simpatico: è il solito misantropo solitario pieno di sensi di colpa che chiacchiera a fatica, imbranato con le donne, e con i figli.
Ed è la perfetta negazione dell’aforisma di Oscar Wilde (che invece io sostengo):
Le domande non sono mai indiscrete. Lo sono, talvolta, le risposte.
Per Erlendur, al contrario, le domande che gli fanno sono tutte indiscrete, si rifiuta di rispondere, considera tutti gli argomenti troppo privati per essere affrontati, si arrabbia, ribatte sgarbato. Diavolo d’uomo, meglio non incontrarlo.

Difatti Erlendur asserisce:
Perché hai sempre bisogno di una spiegazione per tutto? Per certe cose non esiste una spiegazione, mentre altre non hanno bisogno di essere spiegate� La gente parla troppo, dovrebbe stare più zitta. Almeno la passerebbe liscia.
E, se non fosse abbastanza chiaro, meno di una pagina dopo il concetto viene interamente ripetuto, più o meno con le stesse parole:
È difficile da spiegare, forse non è nemmeno possibile. Forse non si può spiegare tutto, forse alcune cose è meglio lasciarle così come sono, senza una spiegazione.

Sì, l’editing non è dove Indriðason da il suo meglio.
Anche se io credo che il suo meglio risieda altrove, questo romanzo non mi ha colpito, le lodi sperticate di Giancarlo De Cataldo mi sembrano molto esagerate, immotivate.

L’ispettore Erlendur nella sua per ora unica apparizione cinematografica, interpretato da Ingvar Eggert Sigurðsson, nel bel “Mýrin � Jar City� del 2006, mai uscito in Italia, diretto dal bravo e poliedrico Baltasar Kormákur.
La voce del titolo è quella del morto che da bambino aveva una voce bianca e cantava in modo più unico che raro al punto che gli si stava per spalancare davanti una luminosa carriera (già due vinili registrati a suo nome), interrotta bruscamente dal cambio di voce durante un importante concerto.
E così, nel giro di un attimo, dalle stelle alle stalle, dall’altare alla polvere.
Fu vera gloria?
No, non si direbbe: il bambino voleva esaudire le ambizioni paterne più che le proprie. E tutto sommato, una volta che le luci del palcoscenico si sono spente (per lui, ma anche per il padre), il cucciolo d'uomo era quasi più contento.
Se non che nel frattempo era diventato lo zimbello dei coetanei, cresceva la sua omosessualità che teneva nascosta, repressa e sigillata, e sviluppava opposizione verso il genitore rimasto, il padre (la madre morta troppo presto, ahilui).
La sorella, leggermente più grande, avrebbe molto desiderato una parte delle attenzioni dirette al fratello, che a lei venivano sistematicamente negate. Sottratte.
Crescendo, “la voce� diventa portiere d’albergo, e tuttofare, alloggiato nel sottoscala dell’albergo fino al giorno della morte per accoltellamento (a Indriðason piacciono i coltelli). Lo trovano coperto di sangue vestito da babbo natale che stava preparandosi per la festicciola prenatalizia per i piccoli ospiti dell’hotel.

”Mýrin� è l’avventura numero 3 dell’ispettore Erlendur: in Italia il romanzo è uscito col titolo “Sotto la città�.
A Indriðason piace anche accennare a un secondo filone d’indagine, a un altro caso non principale, è sua caratteristica ricorrente: un bambino (un altro) picchiato di brutto � da chi, dai suoi coetanei o invece, come crede la polizia, dallo stesso padre?
E perché a Indriðason piacciono tanto i bambini?
Perché l’ispettore Erlendur che sovrintende alle indagini di tutti i casi di questa fortunata serie (fortunata in quanto a vendite, più che a qualità letteraria) quando aveva dieci anni, quando era quindi ancora bambino, ha perso il fratellino nella brughiera sommersa dalla neve.
Perché lui si è salvato? Perché il fratello è morto? Perché il suo corpicino non è mai stato ritrovato?
Trionfo di senso di colpa, e corposo filone di riflessioni mogie che l’ispettore, per mano di Indriðason, avvia quando occorre una pausa nell’indagine principale.

Altra caratteristica dello scrittore di gialli islandese è che il morto compaia a pagina 1 e per le restanti trecento e rotte pagine si cerchi chi è stato a ucciderlo.
Per farlo, i poliziotti protagonisti (Erlendur e due colleghi, una donna e un uomo) fanno un sacco di domande, incontrano e interrogano un numero sterminato di persone, si lasciano andare a riflessioni e quesiti un po� banalotti. Del tipo: aver scoperto che nella saliva del presunto assassino ci sono tracce di tabacco da masticare spinge Erlendur a chiedersi che aiuto possa fornire un simile dato. Come se a Reykjavik, o in Islanda, masticare tabacco come facevano i cowboy fosse pratica diffusa (non lo è: il tabacco da masticare è quasi introvabile, è rimasto uno solo a farlo).
Non ci sono altri omicidi nel corso delle trecento e rotte pagine: se muore qualcun altro è per suicidio o incidente.
Non c’� traccia di corruzione, né politica né economica, non compare malavita, criminalità organizzata. Sono delitti molto casuali.
A me verrebbe da definire Indriðason giallista sociologo: più interessato all’aspetto sociologico, alla descrizione della classe mediobassa islandese, di vite stente, che a un robusto plot, o ad approfondimenti psicologici.

Il protagonista, l’ispettore Erlendur, non è molto simpatico: è il solito misantropo solitario pieno di sensi di colpa che chiacchiera a fatica, imbranato con le donne, e con i figli.
Ed è la perfetta negazione dell’aforisma di Oscar Wilde (che invece io sostengo):
Le domande non sono mai indiscrete. Lo sono, talvolta, le risposte.
Per Erlendur, al contrario, le domande che gli fanno sono tutte indiscrete, si rifiuta di rispondere, considera tutti gli argomenti troppo privati per essere affrontati, si arrabbia, ribatte sgarbato. Diavolo d’uomo, meglio non incontrarlo.

Difatti Erlendur asserisce:
Perché hai sempre bisogno di una spiegazione per tutto? Per certe cose non esiste una spiegazione, mentre altre non hanno bisogno di essere spiegate� La gente parla troppo, dovrebbe stare più zitta. Almeno la passerebbe liscia.
E, se non fosse abbastanza chiaro, meno di una pagina dopo il concetto viene interamente ripetuto, più o meno con le stesse parole:
È difficile da spiegare, forse non è nemmeno possibile. Forse non si può spiegare tutto, forse alcune cose è meglio lasciarle così come sono, senza una spiegazione.

Sì, l’editing non è dove Indriðason da il suo meglio.
Anche se io credo che il suo meglio risieda altrove, questo romanzo non mi ha colpito, le lodi sperticate di Giancarlo De Cataldo mi sembrano molto esagerate, immotivate.

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La voce.
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July 24, 2018
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Started Reading
July 27, 2018
–
Finished Reading
July 31, 2018
– Shelved
July 31, 2018
– Shelved as:
islandese
July 31, 2018
– Shelved as:
giallo-thriller-poliziesco
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message 1:
by
Beata
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rated it 4 stars
Aug 01, 2018 01:23AM

reply
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For me it's so-so. I was expecting more, kind of disappointed.


Dopo averne sentito parlare da De Cataldo, mi aspettavo chissà che, e sono rimasto deluso.
Dopo aver letto anche "Un grande gelo" sono ancora più deluso.


A me non sembra d'aver svelato nulla che non si legga già in qualsiasi riassunto o recensione giornalistica. Comunque, seguo il tuo consiglio.

Io ho sempre immaginato Erlendur con la faccia di Valerio Mastrandrea, ma forse è poco islandese!

Io ho sempre immaginat..."
Sì, direi che è poco irlandese. Soprattutto quando parla 😂
Ingvar Eggert Sigurðsson mi è piaciuto nel ruolo, il personaggio vive più sullo schermo che sulla pagina.
Io non ho problemi con gli spoiler: non è la trama che mi interessa, ma come viene raccontata.

Io ho s..."
Invece io non voglio sapere nulla! :P
Guarderò il "tuo" Erlendur e vedrò se batte Mastrandrea :)

Sulla pronuncia islandese non c'è battaglia, Mastandrea è sconfitto in partenza. 🤣



Ho letto un De Cataldo d’antan, “Nero come il cuore�, e lo ricordo dignitoso. Poi, più nulla. Ma gli sarò eternamente grato per aver scritto “Romanzo criminale� sul quale è stata basata la serie televisiva italiana più bella a mia memoria. Bella senza se e senza ma, degna dei migliori prodotti stranieri.
Oltre al fatto che vedo spesso De Cataldo presentare amici e colleghi scrittori, e lo trovo sempre attento, preparato, gentile, generoso.
Invece, non ne so nulla in veste di magistrato. 🙂

😂🤣😂
