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La colonia felice. Utopia lirica
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"Umanità vanitosa, che, non potendo della virtù, ti glorii del vizio!"
Il primo impatto con questa novella non è dei migliori.
Questione di lingua.
Vocaboli desueti, pesanti, che sanno di polvere.
Tanta polvere da faticare a trovare la linea narrativa.
L’idea di base è geniale per l’epoca (1874) in cui lo scapigliato Carlo Dossi la scrisse.
In breve: un gruppo di prigionieri, eterogeneo per varietà di crimini, sbarca su un' isola deserta.
Lo Stato, rappresentato lì da alcuni soldati di scorta, declama l’inaspettata pena a cui sono condannati.
Dato che nella società civile hanno dimostrato disprezzo per le leggi ora resteranno nell’isola da soli.
Gli viene lasciato un carico di animali e viveri per i primi tempi, dopo di ché, sono abbandonati a loro stessi.
Storditi dalla novità e dalla repentina libertà , il gruppo non tarda a far emergere le personalità forti.
Due sono i leader che si propongono: da un lato Gualdo, detto il Beccaio, il più impulsivo, dall’altro, Aronne, detto il Letterato e quindi il più intellettuale.
Si creano dunque due gruppi: il Leone e la Volpe.
Un esperimento sociale interessante di per sé ma deludente � per quanto mi riguarda- nel suo evolversi.
Ovviamente uno specchio del suo tempo(view spoiler) ma è nella morale proprio che mi cadono le braccia.
(view spoiler)
Insomma, sicuramente innovativo come approccio ad un pensiero revisionista nei confronti della reale efficacia delle riabilitazioni in carcere ma al contempo troppo intriso nel linguaggio e nei risvolti di ideali oggi illeggibili.
Un assaggio:
PRELUDIO
LA CONDANNA
Stà vano i deportati - una quarantina - uòmini e donne, sulla nuova spiaggia tra le cataste di roba e le pacìfiche forme degli agnelli e de� buòi; stà vano, chi in piedi in una èbete immobilità , chi a terra accosciato, le palme alla faccia; tutti affranti da un viaggio lunghìssimo col non sequente à nimo e dal dubbio della lor meta, dubbio peggiore della più amara certezza, e dalla brama cupa, senza speranza, della vendetta. Il aldo tramonto parèa si scolorasse nel pallor dei lor visi, o dai delitti di passione affilati, o fatti ottusi da que� di abitùdine. Nè i cìnici motti di alcuno, nè i lazzi èran sollievo alla morale afa. Dall’ira non si figlia la gioja. Nascèano e spegnèvansi insieme, scintille senza pastura..."
Il primo impatto con questa novella non è dei migliori.
Questione di lingua.
Vocaboli desueti, pesanti, che sanno di polvere.
Tanta polvere da faticare a trovare la linea narrativa.
L’idea di base è geniale per l’epoca (1874) in cui lo scapigliato Carlo Dossi la scrisse.
In breve: un gruppo di prigionieri, eterogeneo per varietà di crimini, sbarca su un' isola deserta.
Lo Stato, rappresentato lì da alcuni soldati di scorta, declama l’inaspettata pena a cui sono condannati.
Dato che nella società civile hanno dimostrato disprezzo per le leggi ora resteranno nell’isola da soli.
Gli viene lasciato un carico di animali e viveri per i primi tempi, dopo di ché, sono abbandonati a loro stessi.
Storditi dalla novità e dalla repentina libertà , il gruppo non tarda a far emergere le personalità forti.
Due sono i leader che si propongono: da un lato Gualdo, detto il Beccaio, il più impulsivo, dall’altro, Aronne, detto il Letterato e quindi il più intellettuale.
Si creano dunque due gruppi: il Leone e la Volpe.
Un esperimento sociale interessante di per sé ma deludente � per quanto mi riguarda- nel suo evolversi.
Ovviamente uno specchio del suo tempo(view spoiler) ma è nella morale proprio che mi cadono le braccia.
(view spoiler)
Insomma, sicuramente innovativo come approccio ad un pensiero revisionista nei confronti della reale efficacia delle riabilitazioni in carcere ma al contempo troppo intriso nel linguaggio e nei risvolti di ideali oggi illeggibili.
Un assaggio:
PRELUDIO
LA CONDANNA
Stà vano i deportati - una quarantina - uòmini e donne, sulla nuova spiaggia tra le cataste di roba e le pacìfiche forme degli agnelli e de� buòi; stà vano, chi in piedi in una èbete immobilità , chi a terra accosciato, le palme alla faccia; tutti affranti da un viaggio lunghìssimo col non sequente à nimo e dal dubbio della lor meta, dubbio peggiore della più amara certezza, e dalla brama cupa, senza speranza, della vendetta. Il aldo tramonto parèa si scolorasse nel pallor dei lor visi, o dai delitti di passione affilati, o fatti ottusi da que� di abitùdine. Nè i cìnici motti di alcuno, nè i lazzi èran sollievo alla morale afa. Dall’ira non si figlia la gioja. Nascèano e spegnèvansi insieme, scintille senza pastura..."
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