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GLI OROLOGI A CUCÙ


Wilhelm Petersen, citato da Kracht.

I recensori (per esempio quello del Guardian) individuano un parallelo tra questo scrittore svizzero-tedesco e due scrittori di lingua inglese: Nick Hornby e B.E. Ellis. Conosco troppo poco il primo per esprimermi; quanto al secondo, che conosco ben di più, faccio fatica a ritrovarlo qui a parte un po� di name-dropping..
Io, invece, ho pensato soprattutto al cinema di Wes Anderson: per la diffusa eccentricità � a cominciare dal personaggio della mamma (con l’accento sulla seconda vocale), ottantenne che avrei una gran voglia di incontrare. E d’altra parte come si fa a non innamorarsi di una che dice al figlio scrittore:
Intendo dire prendere esempio dalla letteratura veramente buona. Da libri che restano, non da orrende fesserie come quelle che scrivi tu. Leggi Flaubert. Allora capiresti come si fa.)
Wes Anderson per una certa qual ironia che rimane in bilico sul confine col black humour. Per il presentare una situazione palesemente assurda, o paradossale, in modo assolutamente matter-of-fact.



Road novel in quanto la maggior parte si svolge in giro per la Svizzera, mamma e figlio io-narrante su un taxi a noleggio, vanno di qua e di là, lei un po� impacciata dall’età e dagli acciacchi (si porta dietro un deambulatore), lui da pensieri e ricordi.
Autofiction in quanto l’io-narrante ha lo stesso nome, Christian Kracht, ha pubblicato lo stesso romanzo, Faserland, mischia ricordi veri a quelli inventati, nella speranza di rompere con il passato della sua famiglia, a mo� di catarsi.
Solo che c’� più di uno scheletro nel fatidico armadio: abusi sessuali, antenati nazisti fedeli e convinti, bdsm (una stanza piena di attrezzi all’uopo), il privilegio di una grossa fortuna economica fatta con gli armamenti.
Ma ciò nonostante, Kracht riesce perfino a essere divertente.

Bello il finale, racchiuso nella frase riportata sulla quarta di copertina:
Grazie per avermi portato i fiori così spesso.