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Il deserto dei Tartari
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La prima volta che ho letto Il deserto dei Tartari di Buzzati era il 1977. E� stato amore a prima vista. Da allora, l’ho riletto diverse volte, con immutato piacere. Un libro “senza tempo�, in cui il tempo pesa come un macigno.
Giovanni Drogo, tenente di prima nomina, dopo l’Accademia Militare si appresta a lasciare la sua casa per raggiungere la Fortezza, destinazione assegnatagli d’ufficio. La Fortezza � luogo imprecisato ed ignoto, pieno di fascino e repulsivo al contempo. Qui, giorno dopo giorno, si consuma la vita del protagonista, nell’attesa del grande momento, della grande occasione: lo scontro con i Tartari. Ma quel momento clou non arriva. O meglio, arriva, ma troppo tardi per Giovanni, che morirà senza aver, in fondo, vissuto nient’altro che un’attesa di vita.
Molte sono le chiavi di lettura applicabili a questo libro, molteplici i simboli in esso racchiusi. Non a caso, l’accostamento che più frequentemente viene fatto è con Kafka. E� stato letto come una critica al militarismo, come una descrizione delle ambizioni frustrate, come una canzone sullo scorrere della vita, come una malinconica interpretazione della gioventù e in tanti altri modi diversi. Ma la genesi del libro è l’autore stesso che ce la racconta, nelle interviste da lui rilasciate. Quando Buzzati iniziò a scrivere questa storia, lavorava nella redazione del “Corriere della sera�, un impiego pesante e monotono. I mesi si succedevano senza apportare mutamenti. Attorno a sé vedeva i colleghi più anziani, che presto sarebbero andati in pensione senza lasciare alcun ricordo duraturo del loro passaggio. E si chiese, allora, se anche per lui sarebbe andata avanti così, in un lento atrofizzarsi degli entusiasmi tipici della gioventù. Un grido di allarme, dunque, per sé, ma anche per noi.
Ciò che più colpisce nel testo è la forza del tempo, la scansione micrometrica dei minuti e degli attimi, la presenza quasi ossessiva di un orologio fuori campo che emette il suo inesorabile “tic tac�, come il “clop� della goccia d’acqua che Drogo sente ogni sera cadere nella camera in cui dorme. Un rumore fastidioso, inizialmente, ma che diventa poco a poco tanto famigliare da non poterne fare a meno, da trasformarsi in assuefazione e necessità. Così come necessaria ed indispensabile diventa la routine quotidiana del servizio, un succedersi previsto e prevedibile di azioni sempre uguali, compiute e ripetute ad orari precisi. Una ripetitività che non si converte in noia, bensì in una specie di ninna nanna consolatoria, che appesantisce le palpebre ed induce al sonno. Ed è proprio in questa coazione a ripetere che si annida, non visto, il pericolo. E� qui che si aprono le piccole crepe attraverso le quali il tempo, senza che ce ne si accorga, scappa via e va inesorabilmente perso. Fuga silenziosa e furtiva, che trascina con sé sogni e speranze.
Senza l’insistente ed onnipresente fattore “tempo�, le pagine di questo libro perderebbero tutto il loro senso. Ecco perché, a mio modo di vedere, la trasposizione cinematografica di Valerio Zurlini del 1976, interpretata da Vittorio Gassman, Giuliano Gemma e Philippe Noiret, non è stata un’operazione del tutto riuscita. Benché la pellicola rimanga piuttosto fedele al testo originale, il tempo “tecnico� del film (150�) finisce per prevalere sul tempo del libro (la vita di Drogo) e va così in parte perso il senso di attesa, l’immobilità ed il rimuginio interiore del protagonista, che vede sfumare i suoi giorni in uno stillicidio di ore e minuti sprecati.
La lentezza, dunque, è il ritmo che domina queste pagine, sapientemente resa dallo stile di scrittura di Buzzati. Ma non è una lentezza positiva. Al contrario, è una lentezza che parla di decomposizione, di festa appassita, di aspettative deluse, di desideri non colti, di uno spegnersi solitario ed angoscioso. Una lentezza che ci racconta un progressivo morire mentre ancora si vive.
Giovanni Drogo, tenente di prima nomina, dopo l’Accademia Militare si appresta a lasciare la sua casa per raggiungere la Fortezza, destinazione assegnatagli d’ufficio. La Fortezza � luogo imprecisato ed ignoto, pieno di fascino e repulsivo al contempo. Qui, giorno dopo giorno, si consuma la vita del protagonista, nell’attesa del grande momento, della grande occasione: lo scontro con i Tartari. Ma quel momento clou non arriva. O meglio, arriva, ma troppo tardi per Giovanni, che morirà senza aver, in fondo, vissuto nient’altro che un’attesa di vita.
Molte sono le chiavi di lettura applicabili a questo libro, molteplici i simboli in esso racchiusi. Non a caso, l’accostamento che più frequentemente viene fatto è con Kafka. E� stato letto come una critica al militarismo, come una descrizione delle ambizioni frustrate, come una canzone sullo scorrere della vita, come una malinconica interpretazione della gioventù e in tanti altri modi diversi. Ma la genesi del libro è l’autore stesso che ce la racconta, nelle interviste da lui rilasciate. Quando Buzzati iniziò a scrivere questa storia, lavorava nella redazione del “Corriere della sera�, un impiego pesante e monotono. I mesi si succedevano senza apportare mutamenti. Attorno a sé vedeva i colleghi più anziani, che presto sarebbero andati in pensione senza lasciare alcun ricordo duraturo del loro passaggio. E si chiese, allora, se anche per lui sarebbe andata avanti così, in un lento atrofizzarsi degli entusiasmi tipici della gioventù. Un grido di allarme, dunque, per sé, ma anche per noi.
Ciò che più colpisce nel testo è la forza del tempo, la scansione micrometrica dei minuti e degli attimi, la presenza quasi ossessiva di un orologio fuori campo che emette il suo inesorabile “tic tac�, come il “clop� della goccia d’acqua che Drogo sente ogni sera cadere nella camera in cui dorme. Un rumore fastidioso, inizialmente, ma che diventa poco a poco tanto famigliare da non poterne fare a meno, da trasformarsi in assuefazione e necessità. Così come necessaria ed indispensabile diventa la routine quotidiana del servizio, un succedersi previsto e prevedibile di azioni sempre uguali, compiute e ripetute ad orari precisi. Una ripetitività che non si converte in noia, bensì in una specie di ninna nanna consolatoria, che appesantisce le palpebre ed induce al sonno. Ed è proprio in questa coazione a ripetere che si annida, non visto, il pericolo. E� qui che si aprono le piccole crepe attraverso le quali il tempo, senza che ce ne si accorga, scappa via e va inesorabilmente perso. Fuga silenziosa e furtiva, che trascina con sé sogni e speranze.
Senza l’insistente ed onnipresente fattore “tempo�, le pagine di questo libro perderebbero tutto il loro senso. Ecco perché, a mio modo di vedere, la trasposizione cinematografica di Valerio Zurlini del 1976, interpretata da Vittorio Gassman, Giuliano Gemma e Philippe Noiret, non è stata un’operazione del tutto riuscita. Benché la pellicola rimanga piuttosto fedele al testo originale, il tempo “tecnico� del film (150�) finisce per prevalere sul tempo del libro (la vita di Drogo) e va così in parte perso il senso di attesa, l’immobilità ed il rimuginio interiore del protagonista, che vede sfumare i suoi giorni in uno stillicidio di ore e minuti sprecati.
La lentezza, dunque, è il ritmo che domina queste pagine, sapientemente resa dallo stile di scrittura di Buzzati. Ma non è una lentezza positiva. Al contrario, è una lentezza che parla di decomposizione, di festa appassita, di aspettative deluse, di desideri non colti, di uno spegnersi solitario ed angoscioso. Una lentezza che ci racconta un progressivo morire mentre ancora si vive.
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Reading Progress
Started Reading
January 1, 1977
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Finished Reading
August 4, 2012
– Shelved
August 4, 2012
– Shelved as:
romanzi
August 29, 2012
– Shelved as:
favorites
January 1, 2015
– Shelved as:
lett-italiana
March 15, 2015
– Shelved as:
italia
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Grazie per avermi segnalato il parallelismo fra il momento professionale di Buzzati e la storia, non ne ero a conoscenza e lo trovo illuminante.